«Prova a immaginare…tu che sei spogliata ogni notte sulla strada. Spogliata di tutto: della tua dignità, della tua gioia, in alcuni casi della tua verginità, dei tuoi anni migliori e della tua vita». La mascherina a pois le copre naso e bocca, ma lascia scoperti gli occhi scuri di Marzia Gotti, coordinatrice dei servizi di prossimità di Lule Onlus, mentre parla delle “sue ragazze” guardando le foto della mostra “Ri-scatti – Per le vie mercenarie del sesso”.

Da più di venti anni l’associazione Lule, “fiore” in albanese, opera sul territorio lombardo come ente anti-tratta stando al fianco degli “invisibili”: donne vittime di sfruttamento e violenza; minori italiani e stranieri in difficoltà e adulti fragili e in situazioni di disabilità.

A volte si ha la paura di violare le persone che sono già violate. Quando ci si avvicina a queste realtà bisogna avere un approccio che sia capace di tener conto della loro forza – perché alla strada sopravvivono – ma anche della loro fragilità

Negli anni i volontari sono stati di supporto a circa 22mila persone, ponendo al centro i loro bisogni e i loro sogni. Grazie ai finanziamenti del dipartimento delle Pari Opportunità, sono attivi nelle dodici province della Lombardia due progetti: “Mettiamo le Ali – Dall’emersione all’integrazione”, di cui Lule è capofila, e “Derive e Approdi”, coordinato dal comune di Milano. «È bello sapere che in Italia esiste una realtà che combatte la tratta degli esseri umani – afferma Marzia – Una rete importante di cui noi facciamo parte e di cui siamo un piccolo anello significativo per il territorio e per ognuna di quelle persone, donne, ragazze, transgender che noi incontriamo». Da sei anni, infatti, Lule Onlus collabora con le Unità Mobili di Strada nel progetto Traffic Light per assistere – giorno e notte, 365 giorni l’anno – le vittime della prostituzione nell’hinterland milanese. «A volte si ha la paura di violare le persone che sono già violate – continua la Gotti – Quando ci si avvicina a queste realtà bisogna avere un’enorme attenzione e delicatezza, un approccio che sia capace di tener conto della loro forza – perché alla strada sopravvivono – ma anche della loro fragilità».

 Se io dico trans, l’immaginario è sulla strada. Questa è la condanna, la loro prima prigione. L’unico modo che la società ti dà per essere una donna.

Su 500mila donne vittime di tratta, che hanno attraversato le frontiere negli ultimi anni, 70mila sono costrette a prostituirsi nel nostro paese e di queste 4mila solo in Lombardia. Nove su dieci sono straniere e un uomo su tre è loro cliente (nove milioni in Italia). Un giro d’affari annuo che si aggirerebbe tra i 2,2 e i 5,6 miliardi. A beneficiarne i tre principali racket dello sfruttamento sessuale presenti sul territorio italiano: nigeriano, albanese e rom. Una vera e propria rete criminale che ha messo in piedi un commercio di persone e che è in grado di garantire un costante ricambio delle ragazze sul mercato nazionale ed europeo. Le giovani donne adescate quasi mai hanno un passato nel giro della prostituzione, ma diventano vittime dei loro reclutatori per sperare in un riscatto sociale.

«Ognuna di loro ha un sogno, ma non per sé, perché loro non si vedono, non si percepiscono, non si sentono degne di avere un sogno – spiega la coordinatrice di Lule – Il sogno è per i familiari, per il figlio da crescere, per il genitore da curare, per comprare una casa loro. Un sogno che probabilmente non si realizzerà mai».

Alcune partono dal proprio paese d’origine con la promessa di riuscire a fare gli interventi di chirurgia desiderati. Queste donne sono le transgender, per il 60% di origine sudamericana, che per realizzare il proprio desiderio contraggono un debito, sia per il viaggio sia durante il soggiorno in Italia, impossibile da saldare. «Se io dico trans, l’immaginario è sulla strada – secondo l’associazione Free Woman circa un quarto delle persone transgender in Italia vive prostituendosi – Questa è la condanna, la loro prima prigione. Tu vai a comprare un paio di scarpe per essere una donna, per liberarti da quel corpo, ma alla fine ti trovi sulla strada perché quello è l’unico modo che la società ti dà per essere una donna», dice Marzia.

Per questo motivo Lule Onlus prova a lanciare degli spunti di riflessione e a offrire un’alternativa alle vittime di tratta e sfruttamento sessuale attraverso quattro attività. «La prima consiste nei servizi di prossimità e quindi stando accanto a loro tutti i giorni in strada senza giudizio e senza chiedere nulla in cambio, senza nemmeno aspettarci un cambiamento, anche se proviamo a promuoverlo – spiega la Gotti – La seconda attività è l’accoglienza dando una seconda opportunità alle persone che decidono e hanno la forza e la volontà per cambiare». Terza attività, l’integrazione. Questa può avvenire solo cambiando vita e una nuova vita parte dal lavoro. Lule si impegna quindi a offrire questa possibilità grazie all’aiuto di imprenditori «che abbiano il coraggio di dare loro l’opportunità non solo di non essere più delle prostitute prostituite, ma di non doversi portare l’etichetta della “ex” per tutta la vita». Quarto servizio è l’attività di sensibilizzazione, con l’obiettivo di «provare a far conoscere per cambiare la prospettiva».

Proprio per questo da due anni, l’associazione Lule, in collaborazione con Compagnia teatrale FavolaFolle, sta promuovendo NoBody, un viaggio sensoriale sul tema della tratta e dello sfruttamento della prostituzione aperto gratuitamente al pubblico.

Tu che entri in contratto con queste ragazze ti senti contemporaneamente loro, chi le guarda da fuori, il cliente

In scena oggi e domani al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, l’installazione teatrale «NoBody è complementare a tutto il lavoro della mostra “Ri-scatti. Per le strade mercenarie del sesso”». Lo afferma Carlo Compare, regista della performance, che ha dovuto leggermente modificare causa emergenza Covid. «Inizialmente lo spettacolo era per gruppi di venti persone, adesso è diventata un’esperienza per singoli o gruppi di congiunti e le attrici sono divise, ognuna nella sua stanza e non si avvicinano mai. Non sappiamo cosa succederà, però secondo me sarà più forte e anche più intimo». L’installazione è costruita in cinque stanze, cinque quadri dove il pubblico entra in maniera immersiva e crea la scena con le attrici. «Ogni narrazione è costruita su uno schema doppio: quello che noi pensavamo di vedere e quello che abbiamo vissuto veramente. Si tratta di una documentazione emotiva del contatto che noi abbiamo avuto con il tema».

 Il rischio di queste persone è quello di perdersi, di diventare pezzi d’asfalto e di perdere il senso di quello che sono. Esseri umani.

La compagnia teatrale ha infatti accompagnato i volontari di Lule nelle notti in strada e il frutto di questi incontri è stato lo spaesamento, «uno scostamento leggero ma fondamentale, che si chiama umanità». «È chiaro che tu sai che c’è un essere umano, ma non sai come si relaziona. Quindi tu che entri in contratto con queste ragazze ti senti contemporaneamente loro, chi le guarda da fuori, il cliente. Uno stato, che poi restituiamo al pubblico, in cui non capisci mai qual è il tuo ruolo e come relazionarti con questa cosa che ti sorprende in continuazione – continua il regista – Nell’installazione troverete una sagoma che si chiama NoBody, che vuol dire sia nessuno, ma anche senza corpo. È la sensazione più forte che ti danno queste donne quando le incontri». ]

Un mix multimediale e multisensoriale dove si alternano video, coreografie, recitazione, canto e azione per raccontare il mondo di quelle donne, vittime della prostituzione e della violenza, che non hanno voce. «Il rischio di queste persone è quello di perdersi, di diventare pezzi d’asfalto e di perdere il senso di quello che sono. Esseri umani. Il nostro ruolo – conclude Marzia – è quello di testimoniare la loro esistenza».

 

 

n.d.r. I dati cui si fa riferimento sono stati raccolti dalle associazioni Lule, OIM, Cooperativa Sociale PARSEC, Save The Children e dal numero verde Antitratta