Dentro ogni smartphone, computer e dispositivo elettronico prodotto negli ultimi dieci anni, è presente il Coltan «Una volta si diceva “diamanti insanguinati” oggi sono i telefoni ad essere insanguinati – dice John Mpaliza, attivista per i diritti umani -, costano molto economicamente ma hanno anche un costo umano altissimo». Dentro ogni smartphone, computer e dispositivo elettronico prodotto negli ultimi dieci anni, è presente il Coltan, una lega di due minerali molto preziosi, la Columbite e il Tantalio, quest’ultimo permette di ridurre i consumi delle batterie e miniaturizzare sempre di più i dispositivi. L’80% della produzione mondiale di Coltan avviene nella Repubblica Democratica del Congo, ed in particolare nella regione del Nord Kivu. Per assicurarsi l’esclusiva delle miniere di Coltan, a fine anni Novanta è iniziata una guerra silenziosa che – ad oggi – si calcola abbia causato più di 8 milioni di vittime. “È stato chiamato l’Olocausto africano” dice John Mpaliza, Premio per la pace Giuseppe Dossetti 2017, residente a Reggio Emilia ma di origini congolesi, che dal 2010 ha deciso di dedicare la sua vita alla battaglia per la conquista dei diritti umani e della pace. Jhon, conosciuto come “The peace walking man”, organizza delle marce per la pace in giro per il mondo, per sensibilizzare l’opinione pubblica su argomenti scomodi, come quello del Coltan, spesso taciuti dai media tradizionali. Il prossimo 22 aprile, con l’aiuto di molti giovani studenti, John partirà a piedi da Reggio Emilia alla volta di Ginevra, per raggiungere la sede delle Nazioni Unite e chiedere che i 20 mila caschi blu della missione Monusco, presenti oggi in Congo, vengano impiegati a protezione della popolazione e non più come semplici “osservatori”. «Se i militari ti vedono fare domande alla gente o anche solo fare una foto senza autorizzazione, ti arrestano all’istante» Per gli altri minerali preziosi, come i diamanti, l’oro e i metalli, è previsto un regolamento internazionale che obbliga gli stati esportatori a dichiarare la provenienza delle materie prime, creato appositamente per evitare commerci illegali e sfruttamenti. Il Coltan, essendo diventato di fondamentale importanza solo negli ultimi anni, al punto da essere chiamato “Il nuovo oro nero”, non è regolato da nessun trattato ed è quindi molto più facile sfruttare le persone ed i territori da cui viene estratto. L’unico regolamento che obbligava le multinazionali a dichiarare la provenienza dei minerali, il Dodd-Frank Act firmato da Barack Obama del 2010, è stato recentemente cancellato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Le miniere di Coltan legali, quelle che rispettano le norme di sicurezza dei lavoratori, che pagano un giusto salario e che fanno attenzione all’impatto ambientale delle estrazioni, sono soltanto il 10% del totale. Il 90% del Coltan viene estratto illegalmente in Congo, pagato 2 dollari al chilo ai minatori, per poi essere esportato nel vicino Ruanda, dove viene stoccato e rivenduto sulle principali piazze mondiali a 500 dollari al chilo. Il monopolio delle miniere è detenuto dalla MHI, un’impresa ugandese che ha rapporti molto stretti con il contestato presidente del Congo, Joseph Kabila. «Il governo “democratico” del Congo cerca di mettere a tacere questo business torbido per continuare ad incassare il più possibile dal mercato nero» racconta John. Ma documentare quello che succede nel Nord Kivu non è facile, come ci racconta il fotografo freelance Stefano Stranges, autore della mostra The victims of our wealth. «Bisogna raccontare che dietro ai dispositivi che usiamo tutti i giorni, c’è una violazione, una grave violazione, dei diritti delle persone, dei lavoratori e soprattutto dei bambini e delle bambine del Congo» «Se i militari ti vedono fare domande alla gente o anche solo fare una foto senza autorizzazione, ti arrestano all’istante». Stranges è riuscito a realizzare la sua inchiesta grazie ad un’autorizzazione della diocesi del posto, senza la quale non avrebbe nemmeno potuto avvicinarsi alle miniere. «I minatori sono degli schiavi senza catene – li definisce così Stefano –, devono scavare all’interno di queste montagne, in buchi di un metro di diametro e 15 di profondità, per raccogliere il minerale più puro. Questi scavi sono molto pericolosi perché spesso crollano e le persone rimangono sotto terra, spesso non vengono nemmeno estratti i corpi». Negli accampamenti vicini alle miniere, le vedove dei minatori vengono abbandonate al loro destino, mentre spesso i minori sono costretti a lavorare anche loro nelle cave. «Non vogliamo demonizzare – afferma John Mpaliza – però bisogna raccontare che dietro ai dispositivi che usiamo tutti i giorni, c’è una violazione, una grave violazione, dei diritti delle persone, dei lavoratori e soprattutto dei bambini e delle bambine del Congo».