«Non posso parlare a nome di tutti, è solo un mio pensiero, ma mi sembra che il Signore ci stia dicendo qualcosa: le priorità autentiche non sono quelle che l’uomo è solito rincorrere dalla mattina alla sera». È conversazione inoltrata quando il tradizionale fatalismo, elemento così tipico nel carattere dei figli di Abramo – temperato da una certa saggezza, figlia dell’esperienza – fa capolino nei discorsi di Huani Mimun, ravi del Tempio di rito sefardita Or Yehuda di via Tripolitania, quartiere Trieste-Salario, municipio ad alta densità ebraica nel quadrante Nord-Est di Roma. Qui la notizia della chiusura delle diciannove sinagoghe sul territorio capitolino è stata ricevuta con rammarico, almeno all’inizio. Col tempo, poi, – complice l’eccezionalità del contesto nel quale è maturata la decisione – la comunità ebraica romana ha dovuto fare i conti, non per la prima volta nella sua storia in verità, con la forza dell’abitudine come risposta di fronte a qualche fatto insolito e spiacevole: «Passata questa fase, tutti hanno accettato l’evento come un segno divino, un’occasione per raccogliersi insieme alle proprie famiglie nelle proprie case, imparando ad apprezzare tutti quei momenti che sfuggono o non si colgono a pieno durante la normale vita quotidiana: parlare con gli altri, stare a tavola insieme, ascoltare, apprezzare la vicinanza degli affetti e – perché no? – anche dei vicini di pianerottolo».

Tra le mura domestiche, le preghiere individuali continuano: «Ciascun fedele può pregare ovunque voglia, da solo o in compagnia della sua famiglia, indossando i filatteri (tefillin), con l’unico accorgimento di evitare alcune letture dei testi sacri, destinate esclusivamente alla dimensione collettiva». Gli scritti su cui si basa la religione ebraica, del resto, parlano chiaro: «Un passo della Torah recita «[…] e starete attenti alla vostra persona», mettendo in guardia i fedeli proprio sul loro stato di salute: quindi, qualora una persona risulti impossibilitata per qualche grave motivo a pregare insieme ai suoi correligionari, questa ne è dispensata». Quanto al rito collettivo – celebrato nel tempio tre volte al giorno, quattro in occasione del giorno di riposo (lo shabbat) –, i vincoli stringenti per la sua convocazione lo hanno visto cadere sotto la scure delle norme anti-contagio: «Il numero minimo previsto per una funzione è di dieci persone al di sopra dei 13 anni di età presenti nello stesso posto, condizione necessaria per far uscire il sefer (i rotoli su cui è riportato, scritto a mano, il contenuto della Torah) dall’armadio sacro (aron) in cui è custodito, srotolarlo e leggere i suoi passi durante la liturgia».

E nulla possono gli strumenti tecnologici, per quanto moderni, potenti e capillari, per sostituirlo: «Nell’impossibilità di riunirci, abbiamo istituito una specie di catechesi con lezioni in streaming aperte a tutti, grandi e piccoli, in compagnia dei nostri maestri – momenti di studio e approfondimento che però niente hanno a che vedere con le funzioni religiose quotidiane». Nel tentativo di sentirsi parte di una sventura comune, lo sguardo prova ad allargarsi, ma lo sgomento rimane: «L’epidemia è stata presa da tutti con la massima serietà, come evento di portata globale – tant’è vero che le sinagoghe sono state chiuse anche in Israele. Ma mai era successo che i luoghi di culto fossero interdetti al pubblico, se non in tempo di guerra o persecuzione».