«Le arti sono il pane della nostra anima, ne abbiamo tutti bisogno». Questo è il pensiero di Alessandro Longobardi, direttore artistico del Teatro Brancaccio e della Sala Umberto di Roma, rimasti nuovamente chiusi in seguito al Dpcm del 3 novembre scorso.

Cosa rappresenta per lei il teatro?

Il teatro, oltre ad essere una mia grande passione, è un termometro che, a mio avviso, misura lo stato di benessere e di civiltà di una società. È il luogo del racconto per eccellenza, realizzato con ogni tipo di linguaggio, che guarda la tradizione, l’innovazione, la ricerca. È un rapporto tra compagnia e pubblico che muove emozioni, apre le menti, aiuta a stare insieme. Il teatro, oltre a essere visto, deve essere praticato, condiviso, discusso. Il mondi della scuola e del teatro, infatti, dovrebbero essere in sinergia diretta sempre. In una sola parola, il teatro è vita.

Con l’ultimo Dpcm la cultura e ogni forma d’arte sono state costrette a fermarsi di nuovo. Cosa significa per questo settore?

In termini economici, per il teatro privato non assistito e che vive, quindi, dei proventi del botteghino, è un colpo ferale. Il luogo-teatro è al centro di una filiera dove a monte abbiamo le produzioni e il loro indotto, a valle abbiamo il teatro con i suoi servizi e il suo indotto, fuori dal teatro il pubblico che genera sul territorio un altro indotto. Quindi, fermare il teatro significa generare un danno di sistema veramente ampio. La ricaduta sui lavoratori dello spettacolo e sui servizi è drammatica. In termini culturali, invece, uno stop così lungo mette in evidenza l’importanza dello spettacolo dal vivo, non sempre compreso e percepito dal mondo politico. Quindi, dopo molte prese di posizione, abbiamo ricevuto un’attenzione che sta generando un ripensamento del nostro ruolo e quindi una revisione delle norme che lo regolano. Certo, siamo agli inizi, ma ci siamo.

“Il teatro è un rapporto tra compagnia e pubblico che muove emozioni, apre le menti, aiuta a stare insieme”

Come funziona l’art bonus, per sostenere l’attività culturale tramite una donazione?

Così come impostato è uno strumento inutile. È stato pensato per i grandi musei, le grandi istituzioni culturali che possono ottenere da aziende con fatturati a 12 zeri un sostegno che in genere gode di relazioni politiche. Per il pubblico poi è troppo complicato comprenderlo e applicarlo. Basterebbe in alternativa consentire la detrazione in dichiarazione dei redditi dell’acquisto di biglietti per attività culturali con un tetto di 500 euro annui a persona. Mentre per i produttori teatrali privati servirebbe il Tax Credit.

Quindi, cosa è stato previsto per il teatro, durante questo ulteriore periodo di pausa dal palcoscenico?

I privati senza contributi del Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) rimangono chiusi. Noi abbiamo un progetto per diventare sede per trasmettere spettacoli in streaming o in podcast, ma servono risorse perché il nostro pubblico non è ancora abituato a pagare per uno streaming.

Lei, in qualità di direttore artistico del Teatro Brancaccio, quali scelte ha dovuto prendere dall’inizio della pandemia?

I teatri preparano le stagioni con largo anticipo, quindi a marzo già avevo definito il più dei progetti produttivi e il cartellone. Abbiamo convenuto con le compagnie di sospendere l’avvio delle stagioni, tranne quella della Sala Umberto che, per caratteristiche (500 posti, quindi 240 vendibili) e tipologia di compagnie consentiva, pur con ampi rischi, di tentare l’apertura della stagione. Così abbiamo inaugurato il 9 ottobre scorso, anche se poi abbiamo dovuto chiudere. Riaprire è stato commovente e meraviglioso per noi e tutto il nostro pubblico.

Chiaramente avete dovuto attuare tutte le misure anti-Covid.

Come teatro abbiamo cercato subito di creare le condizioni di sicurezza utilizzando dei protocolli condivisi. Certo, la riduzione dei posti avrebbe comunque reso impossibile la copertura dei costi, e di fatto siamo stati richiusi. È evidente a tutti che il problema non sono i teatri o i cinema o le sale da concerto; il pubblico assiste in silenzio, distanziato, con mascherine. Si tratta di ben altro. In estate il governo e le regioni non hanno fatto tesoro delle informazioni ottenute durante il lockdown, evitando così di prevenire ciò che ora ci sta travolgendo.

“Il corpo è lo strumento di lavoro di ogni artista e non poterlo utilizzare davanti al pubblico è molto triste”

Cosa è cambiato concretamente a livello organizzativo e nella resa degli spettacoli?

Maggiori costi per la sanificazione, pubblico ridotto più della metà, mentre gli spettacoli nel rispetto del protocollo di sicurezza non possono che essere fatti con pochi attori in scena. Quindi i testi presentano due, tre, quattro personaggi/attori. Spettacoli come i musical o il balletto non si possono fare, ma la qualità artistica non viene alterata e tutto ciò che si può fare si fa bene. Certamente il rischio di uno stop per cause terze come, ad esempio, il figlio del tecnico che ha in classe un sospetto caso Covid e manda in quarantena il padre che manda in quarantena la compagnia, è enorme.

Nel teatro il contatto e la presenza scenica sono fondamentali. Crede che fermarsi possa avere delle conseguenze?

Ho più volte dichiarato che una prolungata chiusura genera un danno superiore al danno economico perché il corpo è lo strumento di lavoro di ogni artista e non poterlo utilizzare davanti al pubblico è molto triste. Come un calciatore tenuto sempre in panchina, l’attore rischia di diventare un brocco.

Il pubblico è essenziale per l’arte, specialmente per la musica e il teatro. Cosa significa per lei una sala vuota?

Tutte le arti, quelle dal vivo soprattutto, esistono solo se c’è qualcuno che le guarda: è un rapporto emotivo biunivoco di dare e ricevere. Sala chiusa significa assenza di rapporto.

Come pensa che si possano salvare le arti? E cosa attenderà a questo settore una volta finita la pandemia?

Le arti sono il pane della nostra anima, ne abbiamo tutti bisogno, e vivranno finché l’uomo vivrà, salvo mutazione genetica e nascita dell’uomo macchina. Diverso il destino di chi fa l’artista e di tutto il sistema spettacolo dal vivo; per cui credo che, al termine della pandemia, questa esperienza potrà essere vista in modo positivo perché ha dato luce e destato attenzione sul settore. Lo Stato dovrà, se coerente con ragionamenti sull’importanza della cultura, investire di più e formare il pubblico di domani.

“Proietti: un vero idolo che tuttavia ha saputo mantenere il giusto distacco e abbracciare i deboli. Un uomo concreto, colto e creativo”

Dal Teatro Brancaccio sono usciti grandi artisti dello spettacolo e proprio qui Gigi Proietti ha voluto creare il suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche. Chi era quindi il Maestro Proietti per questo teatro e per Lei?

Gigi è nato nei piccoli teatri e si rivelò nel 1976 con “A me gli occhi, please” al Teatro Tenda di Molfese. Nel ‘78 mio padre, Gigi Longobardi, lo chiamò al Brancaccio e insieme ad un altro grande, come Gigi Magni, autore di celeberrimi testi teatrali in romanesco, diedero vita a “Gaetanaccio”. Era il momento dei “tre Gigi”. Seguirono “A me gli occhi, please” e “A me gli occhi, please riveduto e corretto”. Poi, nel ’79, Gigi aprì il Laboratorio che si teneva nella sala prove, oggi Teatro Brancaccino (realizzato da lui nel 2001 quando tornó per sette stagioni dal 2000 al 2007). Io ero ancora bambino e conobbi Gigi nei camerini all’ombra di mio padre. Sbirciavo e rubavo con lo sguardo qui e là momenti di vita ordinaria per un teatro, tra spettacoli, prove e camerini; mi trasmetteva un senso di gioia e arguzia. Un po’ un vecchio zio molto simpatico. Poi, ovviamente, nel tempo le cose cambiano, lui era un attore e un regista di grande qualità e amatissimo dal suo pubblico. Un vero idolo che tuttavia ha saputo mantenere il giusto distacco e abbracciare i deboli. Un uomo concreto, colto e creativo. Dal 1985 al 2000 il Brancaccio è stato gestito dal Teatro dell’Opera di Roma, quando il Comune lo rilevò dalla Fondazione per offrirlo alla direzione di Gigi. La strada non fu facile per riposizionarlo come teatro di prosa, ma con la sua ottima squadra Proietti riavviò con successo il teatro. Parallelamente inaugurò il Globe Theatre a Villa Borghese, dedicato al genere elisabettiano e a Shakespeare nel periodo estivo della stagione e fu un altro capolavoro di bravura.  Gigi rimane un talento unico che ha saputo raccontare un certo spirito romano e raggiungere i cuori di tutti gli italiani.