Gian Micalessin, giornalista e inviato nelle principali aree di crisi e di conflitto del mondo, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Ruanda alla Cecenia, conosceva bene Ilaria Alpi. «Per me Ilaria è morta due volte» racconta, in riferimento al loro primo incontro, in Somalia nel 1993, quando Ilaria, coinvolta in un attacco contro quattro fotografi stranieri, scomparve per alcuni giorni. «Non se ne seppe più nulla e tutti pensarono al peggio: solamente quando arrivai a Mogadiscio, scoprii che si era nascosta ed era sopravvissuta».

Quali sono i valori dell’operato e della professionalità di Ilaria Alpi che ricorda e che apprezza maggiormente?
Ciò che mi colpiva di Ilaria era la sua curiosità e l’ingenuità insita in lei. Ricordo che le ripetevo sempre: «Tu ti fidi troppo dei somali». Il suo carattere aperto e sempre disponibile la rendeva poco smaliziata nei confronti della realtà insidiosa di un Paese in piena guerra civile. La sua morte è un ricordo straziante per la famiglia, ma anche per tutti noi che la conoscevamo.«Siamo di fronte a un decadimento qualitativo del giornalismo, sia per la mancanza di fondi che per la mancanza di tempo»

Ha vinto il premio intitolato alla memoria di Ilaria nel 2011 con il lavoro Libia. I ragazzi e la rivoluzione. Quali sono stati i maggiori ostacoli per la realizzazione?
Durante la realizzazione del reportage, in piena rivoluzione libica, la difficoltà maggiore è stata quella di far parlare i ragazzi del loro vissuto, degli affetti, dei rapporti, delle fidanzate. Non erano abituati a raccontarsi, a parlare davanti ai media; facevano parte di una società chiusa da oltre 40 anni, incapace di aprirsi e di parlare di sé stessa. Improvvisamente si sono trovati a descrivere davanti a una telecamera le proprie aspirazioni e la propria vita: è stata allo stesso tempo una prova complessa e interessante. Il reportage era commissionato da Mtv quindi i giovani non erano solamente i protagonisti, ma anche i destinatari del mio lavoro: il documentario doveva possedere un linguaggio adatto a loro.

Che cosa ha imparato realizzando questo reportage e cosa le hanno lasciato i giovani ragazzi libici protagonisti?
Questo reportage diventa ancora più interessante visto oggi, con il senno di poi. Andrebbe chiamato Le illusioni della rivoluzione perché racconta il fermento del mondo giovanile libico e la sua illusione di essere protagonista di un momento storico. Mi sono mantenuto in contatto con i giovani che ho incontrato e li ho rivisti circa due mesi fa: si sono definiti degli illusi, in quanto le loro azioni non sono servite a nulla, tutto quello in cui speravano e per cui si battevano non è avvenuto. Uno di quei giovani oggi è entrato a far parte di Al Qaeda, uno lavora al supermercato e uno odia la politica.«In rete non vedo grande giornalismo, né la cosiddetta democrazia digitale di cui si parla, ma semplicemente una cacofonia dell’espressione»

Il reportage racconta anche l’importanza di Internet nel pieno della primavera araba. Quanto è importante la rete nella diffusione di ideali e nella trasformazione del giornalismo?
In rete non vedo grande giornalismo, né la cosiddetta democrazia digitale di cui si parla, ma semplicemente una cacofonia dell’espressione. Ognuno può dire quello che pensa e confutare qualsiasi opinione. Il giornalismo ha delle regole, che comprendono la verifica delle fonti e la ricerca accurata di informazioni. Fare informazione significa ragionare su un evento e capire cosa c’è dietro, non leggere la stessa notizia su tanti portali diversi. Ciò che manca nei giovani sono gli stimoli e soprattutto la curiosità.

Come definirebbe la situazione attuale del giornalismo d’inchiesta italiano?
Il giornalismo d’inchiesta in Italia è morto, non esiste più. Vedo solamente pseudo-inchieste mal fatte: ormai si usa denominare inchiesta qualsiasi lavoro che comporti una domanda. La situazione attuale è devastante a causa dell’incapacità di molti colleghi di vedere quello che c’è appena dietro l’angolo, di verificare le fonti. Siamo di fronte a un decadimento qualitativo del giornalismo, sia per la mancanza di fondi che per la mancanza di tempo. La fretta non aiuta: non si può pensare di chiudere un’inchiesta in due giorni. La notizia va creata, costruita con un lungo lavoro di approfondimento che richiede investimenti e tempo.