Intelligenza artificiale e acqua. È difficile immaginare un modo per far dialogare due cose così diverse e incompatibili fra loro. Almeno apparentemente. Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione intorno ad uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo: l’emergenza idrica. Con la crisi climatica ci siamo ormai abituati a piogge sempre meno frequenti, un fenomeno che ha come conseguenza una carenza sempre maggiore di acqua. Come se non bastasse, quella che si ha, la si spreca anche. Secondo lo studio Smart Water Monitoring Report, in Italia, ogni anno viene perso più di un terzo di tutta l’acqua immessa nella rete idrica nazionale e il 42% dell’acqua potabile, per un danno di circa dieci miliardi di euro. A generare le maggiori perdite è il settore dell’industria (43%), seguito dai consumi domestici (40%) e dall’attività agricola (17%). E tra le maggiori cause di questo enorme spreco ci sono le perdite nella distribuzione, dovute a reti idriche spesso danneggiate o vetuste.

Ed ecco che entra in campo l’intelligenza artificiale. Sono tante le aziende che stanno iniziando ad investire nello sviluppo di un sistema per cercare, attraverso le più recenti tecnologie digitali, di ridurre gli sprechi d’acqua. Tra queste c’è Quick Algorithm, una startup deep-tech italiana che, dopo tre anni di ricerca, ha messo a punto una soluzione per monitorare il livello di consumi e perdite d’acqua all’interno del settore industriale. Il sistema si chiama Scops, ed integra sensori di AI e IoT (Internet of Things) in grado di prevenire potenziali malfunzionamenti negli impianti. Essendo basato sulla trasmissione di dati wireless, non necessita di integrazioni nei sistemi proprietari aziendali, rendendo la sua implementazione semplice e veloce.

“Applicare questa analisi al monitoraggio delle risorse idriche, attraverso strumenti avanzati di Smart Water Monitoring, significa poter individuare malfunzionamenti, sprechi e consumi anomali in tempo reale e con una capillarità prima impensabile”, spiega Jacopo Piana, fondatore e CEO di Quick Algorithm. Secondo le stime, questo sistema, già adottato da diverse aziende e da alcuni gestori della distribuzione dell’acqua e dei servizi fognari, permette di ridurre gli sprechi idrici fino al 30%. Si tratta di una tecnologia  funzionale anche per il monitoraggio energetico: nel settore industriale, Scops è arrivato a generare un risparmio di sei milioni di euro, pari al 15% dei costi energetici totali, oltre a prevenire perdite di produzione superiori al milione e mezzo di euro identificando un imminente guasto.

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La crisi idrica, tuttavia, non è un problema solo italiano: in Europa interessa il 17% del territorio. Proprio per questo motivo, un settore in rapida crescita in tutto il continente è quello dello Smart Water Monitoring che, come ricorda Piana, “comprende tutte le soluzioni innovative per una gestione efficiente delle risorse idriche. Oggi è valutato circa 16 miliardi, con proiezioni che indicano un aumento fino a 30 miliardi entro il 2028, e si sta espandendo anche in Italia”. 

Ma una crisi del genere ha anche bisogno di soluzioni più radicali: “Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha destinato oltre 900 milioni, di cui 293 provenienti dal PNRR, a progetti che hanno l’obiettivo la riduzione delle perdite di acqua”, continua Piana. “Secondo le previsioni, entro la fine del 2024 circa il 9% del totale di condotte ad uso potabile sarà equipaggiato con sistemi di controllo innovativi per assicurare una gestione efficiente delle risorse e migliorare i servizi offerti ai cittadini”.

LA STARTUP DELL’ACQUA PER UNA NUOVA AGRICOLTURA

Acqua e startup non sono una combo destinata solo all’uso industriale. Il settore dell’agricoltura è sicuramente uno dei molti che devono combatterne lo spreco e in Italia ci sono dei progetti innovativi che vanno proprio in questa direzione.

Plantvoice è uno di quelli. Startup fondata da Matteo e Tommaso Beccatelli e con sede nel NOI Techpark Sudtirol in Alto Adige, il principio che la guida è tutto racchiuso in un biosensore che ha le dimensioni di uno stuzzicadenti. Le sue potenzialità sono però enormi: una volta collocato nel tronco di una pianta, è in grado di monitorare quelle che possono essere tranquillamente definite le sue funzioni vitali: tiene sotto controllo lo stress idrico, quello salino, le infezioni fungine e quelle batteriche. Misura in tempo reale quanta linfa fluisce nel fusto dell’albero e determina le variazioni dei soluti disciolti all’interno della linfa. Una volta registrati i dati, il sensore li invia a un algoritmo governato dall’intelligenza artificiale per fornire poi all’utente delle informazioni dettagliate. Tutto questo è controllabile dal proprio smartphone attraverso una semplice app.

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Non solo aiuta gli agricoltori a risparmiare risorse idriche, ma incide anche sull’uso dei fertilizzanti e dei fitofarmaci. Per quanto riguarda il capitolo irrigazione, progetti di questo tipo sono oggi vitali: basti pensare che il 70% del consumo di acqua mondiale è per l’agricoltura. Secondo i dati riportati sul sito, grazie alla sua installazione molte realtà hanno ottenuto, in media, un risparmio idrico del 40%. I suoi campi di applicazione sono diversi: si fa dalla frutticultura, mele ed uva soprattutto, passando per l’olivicoltura fino ad arrivare anche al verde urbano.

LA TECNOLOGIA SALVERÀ GLI OCEANI?

Le startup non arrivano in soccorso solo dell’agricoltura, ma anche dei mari e degli oceani, sottoposti negli ultimi anni a un eccessivo inquinamento. Lo scorso anno a Milano, dall’idea di tre studentesse dello IED (Istituto Europeo di Design) di Milano è nata Jelter. Caterina Favella, Rebecca Raho ed Emanuela Tarasco hanno presentato come tesi di laurea triennale questo progetto con l’obiettivo di ripulire il mare dalle microplastiche. Il nome non è casuale: in una sola parola sono state unite quelle inglesi “jellyfish” (medusa) e filter (filtro). Nel concreto, sono stati creati dei sistemi di boa che raccolgono dalle acque marine le microplastiche in modo del tutto autosufficiente e sostenibile tramite l’utilizzo di un filtro e di un sistema elettronico, grazie ai pannelli solari disposti su di essa che alimentano la pompa al suo interno. Ad oggi è stato realizzato un solo prototipo ed è stato testato a Fiumicino. 

IL CASO WAMI: L’ACQUA CHE DONA SE STESSA

Acqua che doni acqua: è questa l’idea di Wami (Water with a Mission), un brand italiano di acqua minerale nato nel 2016 con l’obiettivo di cercare di porre fine al problema globale dell’accesso all’acqua, dando a ognuno la possibilità di essere parte della soluzione. Per ogni bottiglia venduta, infatti, l’azienda dona acqua alle comunità bisognose sparse in tutto il mondo attraverso la costruzione di nuovi acquedotti.

Dal 2016, Wami ha donato 9 miliardi di litri di acqua in Africa, Asia e Sud America, realizzando più di 50 acquedotti e consentendo quindi l’accesso permanente all’acqua  potabile a 69mila persone. «L’ispirazione è venuta da un’azienda che fa scarpe, la Toms: per ogni paio di espadrillas acquistato veniva donato un paio di scarpe a chi ne avesse bisogno» ci racconta Michele Fenoglio, uno dei due soci di Wami. In questi anni, spiega, il business si è evoluto, così come i suoi formati: ci sono quelli in plastica 100% riciclata, in lattina, in vetro. Una novità introdotta recentemente è quella degli infusi creati con gli ingredienti provenienti dai paesi coinvolti nei progetti.

Ma la soddisfazione più grande, secondo Michele, è una: «Abbiamo visitato personalmente i luoghi in cui operiamo: è molto bello e allo stesso tempo impattante, si capisce qual è effettivamente l’importanza dell’accesso all’acqua potabile in maniera continuativa 24 ore su 24». L’ideale in cui Wami non smetterà mai di credere è il cosiddetto force for good: ogni azienda deve creare un impatto sul territorio.