Diritti, ora. Il Festival dei Diritti Umani li ha invocati a gran voce attraverso incontri, film, mostre e contenuti e format pensati per gli studenti delle scuole superiori di Milano e non solo. Dal 3 al 6 maggio la rassegna milanese ha alzato lo sguardo sui diritti con alcuni eventi in streaming sulla piattaforma festivaldirittiumani.stream e in presenza, alla Cineteca Milano MIC e al Memoriale della Shoah. I focus principali di questa ottava edizione sono stati tre: grandi crisi umanitarie, disuguaglianze crescenti e pericoli e pregi dell’intelligenza artificiale.
Il direttore del Festival Danilo De Biasio racconta come la scelta del Memoriale abbia un significato ben preciso: «Questo è un sacrario laico di cosa è stata la storia dei diritti umani nella loro violazione. Qui partivano i treni per Auschwitz, e quindi qui sono cominciate le peggiori ritorsioni contro le minoranze. Questo luogo ci insegna che i diritti non sono mai conquistati per sempre».
Il Memoriale è un luogo simbolico in cui all’ingresso campeggia la scritta “indifferenza”, atteggiamento diffuso sui diritti calpestati che il Festival intende contrastare fin dalla sua nascita. Il luogo è significativo quanto il titolo dell’edizione, “Rights Now“. Due parole che, come spiega De Biasio, rievocano il bisogno immediato di chiedere maggiori diritti: «Lo vediamo tutti i giorni: aumentano le disuguaglianze, c’è una crisi ecologica sconvolgente, ci sono le guerre che stanno scoppiando in molti luoghi del mondo. E allora è il momento di dire che c’è bisogno di più diritti per tutti, perché altrimenti sono privilegi, sapendo bene che lo fai in un momento in cui la politica premia esattamente l’opposto, ovvero la sottrazione dei diritti umani».
Durante i quattro giorni del Festival si avvicendati speakers con tante cose da dire. Abbiamo raccolto le testimonianze di quattro donne impegnate nella difesa dei diritti umani. Perché i diritti delle donne sono i diritti di tutti.
Pegah Moshir Pour
«La libertà è ciò che sono oggi: è viaggiare, parlare, postare, stare con chi voglio, vestire come voglio. La libertà è tutto: è respirare, è non avere il timore di morire da un momento all’altro». Quando parla di diritti, gli occhi di Pegah Moshir Pour brillano. L’emozione le incrina appena la voce ma il tono torna subito fermo e deciso, rafforzato dalla consapevolezza di una donna che sa che la libertà non è cosa scontata.
Pegah è una giovane attivista per i diritti umani e digitali, come ama definirsi. L’attaccamento per il suo paese, l’Iran, che ha lasciato con i genitori da bambina, non attenua il senso di radicamento che prova per l’Italia, dove è cresciuta. Pegah è l’emblema di una generazione che non conosce confini e che ha fatto del web sia lo strumento di lotta nei confronti di governi autoritari sia la via per rivolgersi a un pubblico globale. Proprio attraverso i social network, l’attivista ha sempre cercato un canale diretto con le persone, per diffondere maggiore consapevolezza su questioni che l’hanno toccata da vicino. Dal tema della cittadinanza italiana alle discriminazioni di genere, fino al canto di rivolta e speranza di donne e uomini iraniani che da settembre stanno protestando contro un regime che soffoca ogni forma di libertà.
«Sono attivista da quando ho 15 anni perché ero senza cittadinanza italiana e ho iniziato a sensibilizzare le persone sul tema della cittadinanza – racconta Pegah –. Essendo donna e straniera ho vissuto tutti gli stereotipi e le discriminazioni. Dal settembre scorso ho deciso di parlare dell’Iran in maniera più approfondita, perché vedevo che non c’era informazione, e l’unico posto in cui potevo comunicare erano proprio i social media. Ho iniziato a postare video e foto ogni giorno, facendo la cronaca dettagliata di quello che accadeva». Questo lavoro assiduo di diffusione di informazioni corrette ha portato Pegah ad avere un riconoscimento da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a portare la voce degli iraniani sul palco dell’Ariston nell’ultima edizione del Festival di Sanremo. L’intensità della lotta che stanno portando avanti gli iraniani è tutta raccolta nel gesto finale di Pegah, che si scioglie i capelli e dedica le sue parole alla libertà.
Con Pegah, i social diventano dei megafoni, canali diretti in grado di oltrepassare confini, sfidare regimi e censure, condividere le informazioni per costruire insieme le basi di una società democratica. «Anche il diritto digitale è un diritto umano, perché consente l’accesso a internet, all’informazione, alla condivisione. Nei Paesi dove c’è la censura, sappiamo cosa vuol dire non avere accesso a internet ma quando si vive in contesti democratici, non ci si pone il problema di come accedere a internet o comunicare con le persone».
Proprio i social stanno avendo un ruolo importante nelle rivolte scoppiate in Iran a settembre a seguito della morte di Mahsa Amini, accusata dalla polizia religiosa di non indossare in maniera corretta l’hijab. Aveva 23 anni. L’ondata di proteste ha conquistato l’attenzione dei media occidentali ma secondo Pegah proprio questa attenzione è andata sempre più scemando ed è stata anche intaccata da ricostruzioni non sempre corrette.
«I media occidentali all’inizio, vedendo donne che bruciavano il velo e hanno portato l’attenzione sul velo – denuncia Pegah –. Ma non è una questione religiosa, anzi ci sono tante donne con il velo che manifestano. Se ne parlava molto in maniera sbagliata e molti islamofobi hanno cavalcato l’onda mediatica parlando dell’Iran come se fosse una liberazione dal velo. In realtà non è esattamente così».
Narrazioni false e imprecise hanno spinto Pegah e altri attivisti a prender parola, per riportare le testimonianze, le foto, i video provenienti dall’Iran: «Grazie ad altri attivisti nel mondo abbiamo aiutato i giornali che volevano ascoltarci a fornire una narrazione degli avvenimenti più corretta. Non è una guerra religiosa ma di potere e politica. La religione prevede la libera scelta della donna. Il regime non sta rispettando nemmeno la religione e questo gli iraniani lo sanno ma è importante parlarne. Se n’è parlato all’inizio di più, ora c’è troppo silenzio. Mi rendo conto che a distanza di tempo l’attenzione vada scemando, ma non possiamo permettere che il regime vinca».
Pegah continua ad essere la voce di storie e persone. La sua attività non conosce confini, proprio perché è consapevole che i diritti sono fragili e una volta conquistati non vanno dati per scontati. «Anche in Italia sul tema dei diritti c’è ancora tantissimo da fare. Se solo pensiamo ai diritti che le generazioni precedenti hanno conquistato e ora li stiamo mettendo in discussione come il diritto all’aborto che in Iran dal 1979 è stato il primo diritto ad esser tolto. Non dobbiamo mettere in discussione i diritti che sono stati acquisiti, non è scontato che restino per sempre. C’è tanta strada da fare perché abbiamo dei retaggi culturali che ci portiamo avanti. In tutto il mondo non c’è una parità di genere nonostante abbiamo una parità numerica tra uomo e donna ma non è una parità riconosciuta nella società».
L’attivismo di Pegah è lo specchio di una lotta 2.0, che viaggia instancabile sui social e sulla rete, in grado di raggiungere tutti, perché nessuno possa dire: io non sapevo.
Fatima Haidari
“Se parlo da donna afghana, la libertà per una donna è poter andare a scuola, poter lavorare, poter essere la persona che scelgo di essere. Ma in Afghanistan, al momento, tutto questo è impossibile”. Metà capo coperto dal velo, le spille colorate che le fermano i capelli neri appena visibili, Fatima Haidari emana la consapevolezza di chi ha vissuto cose terribili. Ad agosto 2021, i talebani hanno conquistato Kabul e lei è stata costretta a venire in Italia e lasciare la sua famiglia e la sua carriera da guida turistica in Afghanistan, per poter continuare a vivere. Ha ricominciato la sua vita da zero qui a Milano: si è iscritta all’Università Bocconi, ha creato il suo gruppo di amici, e ha ripreso a fare i tour online, come una qualsiasi ventiquattrenne. Ma in lei rimane vivo il trauma, la preoccupazione di ciò che sta succedendo laggiù. “Non so se posso dire di rappresentare le donne afghane perché sto vivendo una vita normale, che in Afghanistan è difficile da immaginare. Alle donne è vietato andare a scuola, all’università e fare anche le cose più semplici che prescindono dall’essere donna, come andare al parco, in palestra. Non possono nemmeno uscire da sole”. Fatima alza la voce quando deve ricordarci l’amara verità: “Per la vita a cui sono costrette, le donne non hanno diritti di base e dunque non sono considerate nemmeno esseri umani”.
C’è poi un altro dato. Di fronte alla guerra in Ucraina, il resto dei conflitti è passato in secondo piano e l’Afghanistan è scomparso dalle testate internazionali. “Se ne sono dimenticati. Io sto provando a dare il mio contributo, non importa quanto piccolo sia. Spero che le organizzazioni che salvaguardano i diritti umani, che all’inizio si erano mobilitate tanto, lo facciano ancora”. Consapevole della fortuna che ha avuto – di poter fuggire e trasferirsi in un Paese pacifico e libero -, Fatima sfrutta il palco del Festival dei diritti e i social media per raccontare quello che sta succedendo. “Ci sono madri i cui mariti sono morti da soldati oppure a causa delle esplosioni che, non potendo lavorare, sono costrette a dover vendere i propri figli per procurarsi da mangiare e per salvare gli altri. Ci sono delle mie amiche che si augurano che nessun’altra donna, nessun’altra bambina nasca in Afghanistan perché è peggio dell’inferno.” Rimanere indifferente è impossibile. “Quale crisi può essere più urgente di questa dove una madre è costretta a vendere il proprio figlio per farne sopravvivere altri?”
Rula Jebreal
Le donne che lavorano sotto regimi autoritari o in zone colpite dalla guerra sono la categoria più a rischio nel mondo del giornalismo in quanto vittime primarie della ricerca e della difesa della verità. È in nome di questo loro diritto violato che la giornalista e scrittrice Rula Jebreal ha preso parte all’incontro Rivolta: sostantivo femminile. Dialogo su un mondo inquieto, organizzato giovedì 5 maggio in occasione del Festival dei Diritti Umani al Memoriale della Shoah di Milano: «Difendo il loro diritto di fare giornalismo che in questo momento assomiglia ad un atto di resistenza, e di lavorare senza paura, perché questa professione non è un crimine». La Jebreal è in collegamento da Miami: là è mattino, a Milano quasi sera, ma l’universalità dei principi che la giornalista menziona colma il divario spazio-temporale. «In un Paese civile la misura della sua civiltà e democrazia è la libertà di informazione e di opinione: quando questi principi sono minati, questo è il primo segnale di deriva autoritaria».
A queste donne brutalizzate, attaccate, minacciate, Jebreal ha dedicato il suo ultimo libro, Ribelli che stanno cambiando il mondo: una raccolta di storie femminili che «resistono, credono e lottano» per portare luce nella tenebra fitta della corruzione e dell’ingiustizia. Tra loro c’è la giornalista indiana Rana Ayyub che, nonostante viva oggi nella paura dell’odio e della violenza per le sue indagini scomode sugli abusi del governo Modi, continua a lavorare per il Washington Post e altre reti americane, schierandosi per la verità. «Ammiro il suo coraggio, la sua tenacia, la sua resilienza», commenta l’autrice.
L’esistenza di un Festival dei Diritti Umani è più che mai necessaria e urgente oggi e non solo in Paesi autoritari ma anche nel più democratico Occidente. «Anche qui ci sono molti colleghi giornalisti che vivono sotto scorta, minacciati di continuo dai politici. Per la prima volta nella storia italiana provo grande preoccupazione per l’impatto sulla tenuta democratica della propaganda filo-russa: ci sono persone che a rete unificata continuano a rendersi veicolo di disinformazione e teorie complottiste». Non è un mistero che per Jebreal l’Italia si attesta ancora ad un livello molto arretrato in materia di diritti dell’informazione ma la guerra inaugurata da Putin, per la giornalista, è non solo un attacco territoriale all’Ucraina ma un assalto morale all’Occidente. L’esportazione di una dittatura inizia con le parole, prima che con le armi e infetta la società in modalità lente e capillari. Il veleno delle parole è un contagio che si diffonde in fretta e che fomenta la miccia dell’odio: «Basti pensare, per esempio, al terrorista neo-nazista Luca Traini, le cui parole sono state citate come modello edificante in numerose altre occasioni: l’attentatore che nel 2018 ha ucciso cinquantacinque musulmani intenti a pregare nella Christ Church, in Nuova Zelanda, ha redatto un manifesto in cui si appellava proprio a Traini, oltre che a Donald Trump, citato come difensore della razza bianca».
Bisogna dunque stare all’erta: «Quando si inizia a identificare le persone in base a chi siamo noi e a chi sono loro, quelli di razza diversa, si ricade nella retorica propria dei regimi nazisti degli anni Trenta: tutti i crimini di odio e i genocidi sono iniziati con le parole e temo purtroppo che queste non siano soltanto una manifestazione verbale, ma nascondano al suo interno molto altro».
Sofiia Babakova
C’è poi chi difende la propria libertà di vivere in pace ripartendo da zero, ma difende anche quella di coloro che restano, nonostante l’infuriare della guerra. Sofiia Babakova è una ragazza ucraina di 18 anni. Partita da Kharkiv, è arrivata a Milano poco dopo l’invasione della Russia. I suoi progetti di ragazza, neanche maggiorenne, sono cambiati improvvisamente il 24 febbraio 2022. «La Sofiia che viveva a Kharkiv poteva fare piani a lungo termine – racconta –, sapeva cosa voleva fare in futuro. Per la Sofiia che oggi vive in Italia, invece, è più difficile capire quale sarà il suo futuro».
In Ucraina ha lasciato la nonna, che non se l’è sentita di abbandonare la terra dove è nata ed è sempre vissuta, e gli amici: «Alcuni studiano all’università, altri hanno già trovato lavoro e capisco quanto sia difficile abbandonare le proprie vite». Lei invece ha provato a ripartire dal nostro Paese. «Abbiamo impiegato quattro giorni per arrivare: prima abbiamo lasciato l’Ucraina, poi siamo entrati in Polonia e, dopo un giorno e una notte di viaggio, siamo arrivati in Italia».
Adesso Sofiia studia al liceo turistico Bertarelli-Ferraris e si sente grata di aver trovato in Italia tante persone che hanno voluto accoglierla con affetto. «Nei primi giorni tutti volevano aiutarmi, per esempio chiedendo se avessi bisogno di cibo, di vestiti oppure di supporto psicologico». Poi, con il passare del tempo, sono sorte nuove esigenze come la scuola e i corsi per studiare una nuova lingua. «Durante i primi giorni ho parlato solo inglese. Adesso mi sento più italiana rispetto a un anno fa: inizio a parlare un po’ la lingua e inizio a capire meglio come funzionano le cose in Italia». Essere riuscita a inserirsi nel migliore dei modi tra i suoi coetanei è stato decisivo, ma anche essere ospite di una famiglia l’ha aiutata molto. «Le prime parole che ho imparato sono state i comandi da dare al cane – ride –. “Seduto, dai la zampa!”».
Quando le chiediamo se in futuro ha intenzione di tornare a casa, le si illuminano gli occhi. «Penso di sì, però voglio finire studiare qui in Italia. Poi vorrei tornare in Ucraina per aiutare il mio Paese a rialzarsi, perché quando finirà la guerra ci sarà da lavorare molto».