“L’avremmo ripresentato fino a quando non fosse passato”. Quando si parla di salute mentale, s’intuisce una secca determinazione – che confina a tratti con l’irriverenza – nelle parole di Elisa Pirro. Pronunciate come una confidenza, suonano più simili a una dichiarazione d’intenti. A posteriori, riescono a spiegare tutto. O quasi. Quante e quali caratteristiche servano per scrivere una proposta, portare avanti un’iniziativa e riuscire a trasformarla in legge: tenacia, capacità di andare oltre le appartenenze politiche, gioco di squadra, interpretazione della politica come puro servizio pubblico. È raro trovare carne e sangue tra le righe fitte di burocratese della Gazzetta ufficiale. Qualche volta, però, succede. Senatrice del M5s dal 2018, Pirro è una tra le firmatarie della proposta di legge per l’istituzione del cosiddetto bonus psicologo. Uno strumento economico dall’obiettivo ambizioso: garantire ai cittadini maggiore tutela sul versante del benessere psicologico, messo a dura prova dagli strascichi dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Presentata nel dicembre 2021, la proposta comincia a essere concepita almeno un anno prima.

Insieme a Magzine la senatrice ricostruisce la storia della misura. “Era l’autunno del 2020 – ricorda – e ci trovavamo nel pieno della seconda ondata”. Come tutto quanto riguarda gli avvenimenti degli ultimi due anni, la memoria delle vicende personali finisce per amalgamarsi con il vissuto collettivo. Impossibile separare la prima dal secondo. “Come madre – racconta – mi sono accorta del cambiamento nei comportamenti e nelle abitudini dei miei due figli durante la didattica a distanza. In più, quando sono riprese le lezioni in presenza, ho percepito in loro la riluttanza, per esempio, a prendere i mezzi pubblici o a dover restare in spazi ristretti”. In principio, la priorità consisteva proprio nella creazione di un contributo ad uso di giovani e adolescenti. Eppure, a partire dalla fase preliminare, durante l’interlocuzione con gli specialisti del settore per la stesura del testo, appare subito evidente che la platea dei beneficiari si sarebbe allargata. Del resto, secondo Pirro, “chiunque, intorno a sé, ha potuto verificare la difficoltà in cui versavano tante persone”. Una simile consapevolezza emerge anche nel corso del confronto con le colleghe deputate e senatrici, in particolare con la senatrice Caterina Biti (Pd), relatrice della proposta e prima firmataria. Con il tempo, il sostegno cresce. Come dimostrato dalle adesioni in calce al documento, che riportano i nomi di Anna Maria Parente (Iv), Paola Boldrini (Pd), Loredana De Petris (Leu), Raffaella Marin (Lega) e Maria Teresa Bellucci (FdI). Una pattuglia trasversale e tutta al femminile. “Non so se l’istintiva inclinazione di noi donne a prendersi cura degli altri ha giocato un ruolo. Sì, può darsi” ipotizza. Di certo, la concordia ha contribuito in maniera costruttiva alla discussione. “Appena ci siamo messe all’opera – racconta – ci siamo promesse di andare avanti. Insieme, dritte fino all’obiettivo”.

Così parlamentari di forze politiche di maggioranza si sono sedute a collaborare fianco a fianco con esponenti dell’opposizione. Un piccolo miracolo se si pensa che, almeno fino all’inizio della pandemia, la legislatura in corso si era svolta all’insegna di un altissimo tasso di conflittualità tra i partiti. “Non c’interessava piantare una bandierina e intestarci il merito della proposta” spiega l’onorevole Maria Teresa Bellucci (FdI). “Si trattava di difendere un diritto su un tema dove l’Italia resta fanalino di coda tra i paesi dell’Unione europea”. Diverse statistiche confermano il suo punto di vista. Secondo il report dell’indagine Headway 2023 – Mental health index, commissionata dal Forum Ambrosetti e condotta nei ventisette paesi Ue, in Italia le Asl risultano sotto organico. Tra i profili professionali meno frequenti figurano proprio psichiatri, psicologi e infermieri. Inoltre, la percentuale di risorse destinate alle malattie mentali nel nostro Paese ammonta soltanto al 3.5% rispetto alla spesa sanitaria complessiva, pari a 127 milioni di euro solo per l’anno 2021. Valori assai più modesti rispetto a quelli di nazioni virtuose: Germania (11,3%), Svezia (10%) e Regno Unito (9,5%). Tuttavia, senza l’esperienza umana la freddezza dei numeri riesce a descrivere la situazione soltanto a metà. “Ho ricevuto moltissime testimonianze, credetemi” confessa la presidente della commissione Sanità del Senato Anna Maria Parente. “Parlano di adolescenti disorientati e donne che hanno sofferto di burnout”. Queste ultime schiacciate dal loro triplice ruolo di mogli, madri e lavoratrici. “Hanno dovuto badare alle faccende domestiche, prendersi cura dei figli, farsi carico dei mariti e occuparsi, nel frattempo, delle loro mansioni”. I due anni di isolamento domiciliare raccontano – per chi sa ascoltare – la storia di un peso familiare riversato quasi per intero sulla figura femminile. È anche per porre rimedio a un simile e desolante scenario se l’iniziativa prende corpo sotto forma di emendamento. Per oggetto ha la creazione di un Fondo salute mentale da finanziare con 50 milioni di euro a cadenza annuale.

Ripartito come segue: quindici milioni destinati all’avviamento, da distribuire a tutti coloro a cui non era stato diagnosticato un disturbo, senza limiti di reddito; trentacinque, dedicati al sostegno, con sussidi tra i 400 e i 1.600 euro erogati secondo il calcolo Isee. Ad inizio dicembre, le firmatarie si apprestano alla prova dell’aula. Il 2 dicembre 2021 presentano il provvedimento in conferenza stampa e dichiarano di volerlo inserire nella Legge di Bilancio per il 2022. Il 27 dicembre, tre giorni prima del via libera definitivo, arriva la doccia fredda: il governo blocca l’emendamento. Malgrado le migliori intenzioni, manca ancora il parere del ministero dell’Economia sulla copertura finanziaria. Si teme che la battuta d’arresto metta a rischio la misura. “No, per fortuna non ci siamo perse d’animo” sostiene Pirro. “Il sentiero tracciato andava nella giusta direzione”. La stessa convinzione matura nell’opinione pubblica. Trova espressione nell’agorà digitale, in rete, dove molti utenti si mostrano dispiaciuti. Di più, contrariati. Dell’intervento viene lodata soprattutto l’utilità. Lo stop è percepito come una bocciatura. Definitiva e ancora più beffarda in virtù del mancato veto verso altre forme d’incentivo – i cosiddetti bonus rubinetti o bonus terme. La mobilitazione parte subito: una petizione online su change.org – lanciata dal giornalista del Tg1 Francesco Maesano e rivolta ai due rami del Parlamento, a Palazzo Chigi, al premier Mario Draghi e ai ministri Daniele Franco e Roberto Speranza – raccoglie in breve tempo oltre 175mila firme. Mentre scriviamo, ne ha raggiunte circa il doppio. È un segnale inequivocabile: questo bonus gode del sostegno di chi ne ha bisogno. “Sapevamo che l’occasione si sarebbe ripresentata” conclude Pirro. L’opportunità ricapita a stretto giro. Poche settimane dopo, grazie al meccanismo utilizzato dal governo per posticipare l’entrata in vigore delle norme o estendere l’efficacia di leggi in scadenza, il bonus trova posto nel decreto Milleproroghe. Il testimone passa di mano in mano: ad afferrarlo è la deputata Celeste D’Arrando (M5s). “No, si è trattato di una pura casualità” replica quando Magzine le chiede se il passaggio di consegne, ancora tra donne, sia stato cercato o voluto. Conferma, però, di aver lavorato con il gruppo di deputate e senatrici ancora prima di occuparsi del provvedimento. “Perché – illustra – tutto quanto era in nostro potere di fare per giungere all’approvazione andava pensato e approfondito in modo collegiale”.

Nell’iter tra un decreto e l’altro, il compromesso ridisegna i contorni del disegno di legge. Per venire incontro alle richieste di via XX settembre, il volume di spesa subisce una sforbiciata. L’importo totale ammonta a 20 milioni di euro: metà di essi serviranno al miglioramento dell’efficienza del Sistema sanitario nazionale; la restante parte, tramite le Regioni, finirà nelle tasche dei cittadini che vorranno intraprendere un percorso di cura psicoterapica. “Massimo 600 euro a persona per redditi non superiori a 50mila euro” precisa Parente. In concreto: “Otto sedute per un plateau di 16mila persone”. “Si tratta di un primo passo, anche se è un contributo ancora insufficiente” ammette. In più, “cancella uno stigma intorno alla psicoterapia”. Il 24 febbraio 2022, con voto di fiducia, il Senato dà parere positivo con 196 sì, 26 no e nessun astenuto. La palla passa dunque al governo. Nonostante da settimane si rincorrano voci sull’imminenza della data di emanazione dei decreti attuativi, il ministero della Salute ancora non sa fornire informazioni precise. L’Ufficio stampa preferisce trincerarsi dietro due frasette tecniche dal tono laconico: “Gli uffici competenti stanno valutando. La procedura è in corso”.

La questione coinvolge, insieme a questo, diversi altri decreti, la cui è rimandata a data da destinarsi. Non succede altrettanto per l’impegno delle parlamentari in materia. In un convegno organizzato lo scorso 16 marzo nella Sala Zuccari del Senato, deputate e senatrici hanno ribadito l’attenzione sul tema. In futuro bisognerà implementare il provvedimento. Come? Si potrebbe tornare su scelte già prese col fine, magari, di ripensarle. Nel Dm 71 (il decreto ministeriale che fissa nuovi standard sulla sanità territoriale e istituisce le Case di comunità, ndr) la presenza di specialisti per i servizi di salute mentale e dedicati alle dipendenze viene – testualmente – raccomandata. “Una locuzione che lascia piena discrezionalità e non impegna a nulla” sottolinea Bellucci. “Bisogna introdurre l’obbligatorietà” le fa eco D’Arrando. La deputata 5 stelle ipotizza pure l’istituzione degli psicologi scolastici o di psicologi delle cure primarie. Entrambe concordano sulla necessità di costruire una rete di strutture territoriali socio-sanitarie per promuovere cura e prevenzione. Attraverso l’istituzione, a livello nazione, di un’assistente psicologico di base, figura ad hoc in grado di entrare negli studi medici, più vicine alle famiglie. “Dopo anni di tagli lineari alla sanità sarebbe anche ora” conclude D’Arrando. Vuole sembrare un proposito. Eppure, pronunciato da chi ha fatto parte di quest’agguerrito drappello assomiglia più ad una promessa: non finisce qui.