“L’essenziale è invisibile agli occhi”. Scriveva così l’autore di uno dei più belli e autentici libri che dietro l’apparente semplicità di un linguaggio rivolto ai bambini cela i più profondi pensieri sul nostro essere uomini. Quelle stesse parole, con cui Antonie de Saint-Exupéry ha scolpito nelle menti di generazioni di lettori di ogni età e provenienza il suo Piccolo Principe, racchiudono la descrizione di uno dei beni più preziosi eppure inosservati, da cui tutto dipende e a cui tutto inesorabilmente si lega: l’acqua. Silenziosa come il suo colore trasparente, senza vistosità né imponenza, l’acqua raggiunge ogni essere e ogni anfratto. Ripaga la trascuratezza con cui la si considera con uno sguardo generoso, disinteressato e accorto per qualunque creatura che popoli questo pianeta. L’acqua è vita, futuro, costante in cui ogni diversità trova comunanza e risoluzione. Come tutte le cose preziose e sottovalutate, è spesso l’assenza ad innescare il processo della consapevolezza. E così è accaduto anche con l’acqua. La siccità degli ultimi anni è stato un grido, forte, lancinante, disperato, che ha smosso le coscienze, ponendoci di fronte ad un’emergenza che condiziona ogni ramo della nostra esistenza. La carenza idrica si traduce in perdita di vite, aumento dei costi, diminuzione della produzione, incremento dei tempi di lavoro e delle energie necessarie per svolgerlo.

In Italia una delle regioni a soffrire maggiormente l’impatto negativo di questa emergenza è il Piemonte, custode della sorgente del fiume Po e origine del diramarsi del suo bacino. L’acqua che ne alimenta il corso è l’evoluzione della neve caduta e sedimentata durante l’inverno sull’arco alpino, il principale serbatoio idrico italiano. Al momento, però, ne manca più della metà: di solito, in questo periodo dell’anno, si registrano nel nostro Paese circa 10-13 miliardi di metri cubi d’acqua, ma quest’anno il totale ammonta a meno di 4 miliardi – la criticità viene ulteriormente evidenziata se si considera che l’anno scorso, già preoccupante, nello stesso momento se n’erano registrati 6 miliardi. Nello specifico, nel bacino del Po, che ospita il 50% delle risorse idriche nivali italiane e fornisce acqua dolce a diversi settori economici ed ecosistemi, il deficit è pari al -66%, addirittura maggiore rispetto al quadro nazionale.

Una delle regioni italiane che più soffre la siccità è il Piemonte, con la sua moltitudine di paesaggi e colture. Il bacino del fiume Po registra oggi un deficit del -66%, una cifra superiore rispetto al quadro nazionale.

Sono dati allarmanti e capaci di comunicare la gravità della situazione anche a chi non appartiene al mondo della scienza e dei numeri. Il loro esame restituisce un quadro estremamente oggettivo, ma parziale; rigoroso, ma distante dalla percezione e dalla realtà quotidiana delle persone. Limitarsi a parlare di siccità attraverso i numeri è condizione necessaria ma non sufficiente, se l’intento è quello di comprenderla davvero e a fondo. Perché questo accada bisogna affiancare la ricerca al vissuto, il dato alla voce reale e sentita di chi ogni giorno la tocca con mano, la previsione futura alla realtà presente di chi, già oggi, l’ha vista insediarsi nella propria quotidianità. La siccità si è insinuata nelle stalle di Marta, che a Sambuco (Cuneo) dove è nata, alleva le sue pecore e capre. La siccità ha invaso i quattrocento alveari di Alberto che, disseminati sui versanti della Valle Stura, ospitano la lenta trasformazione del nettare in miele. La siccità è nei vigneti di Aldo, che dal 1968 nella sua azienda di famiglia nelle Langhe, coltiva non soltanto le sue viti, ma anche il sogno di una produzione rispettosa dei ritmi della natura e delle stagioni.

Gregge dimezzato, prezzi raddoppiati

Sambuco è un piccolo comune della Valle Stura, in provincia di Cuneo. Sorge a 1184 metri di altezza, proprio ai piedi del monte Bersaio. Marta Fossati, che a Sambuco ci è nata, è testimone di una lenta e graduale trasformazione che per lei si misura attraverso i metri di neve accumulati, le ore impiegate per raggiungere un luogo adatto al pascolo, le foglie estive accartocciate dalla secchezza. Vive qui tutto l’anno, con il suo gregge di centottanta capre e sessanta pecore, adeguandosi a un calendario scandito dal ritmo di un allevamento semi-estensivo, che alterna la stabulazione in stalla nel periodo invernale e il pascolo all’aria aperta nei mesi estivi.

Fino a quando non ha iniziato a fare questo lavoro, quattordici anni fa, la neve era per lei più che altro una scocciatura, che aumentava la pericolosità delle strade e rallentava gli spostamenti, già sacrificati, nelle dimenticate periferie montane. Adesso, invece, per lei l’acqua è tutto. L’alimento che vivifica gli animali, la linfa che accende i prati, la garanzia della produzione di carne e latte, il calmiere delle materie prime su cui poggia il sostentamento delle bestie. «Non sono un’agronoma, sono solo una pastora, ma l’abitudine di pascolare sempre negli stessi posti mi ha permesso di notare come quella di adesso sia una siccità profonda – Marta parla con la saggezza che deriva da uno sguardo esperto e quotidiano –. Anche se piovesse, non basterebbe più. Gli alberi stanno soffrendo, soprattutto nelle zone più impervie, dove la pioggia scivola via velocemente».

«La siccità che viviamo oggi è profonda: anche se piovesse, non basterebbe più. Alberi e animali soffrono, i prezzi aumentano e adattarsi al cambiamento in atto non è sempre facile», spiega Marta Fossati.

«La scorsa estate è stata un incubo: mi sono dovuta spingere in pascoli in cui non ero mai stata, tanto sono lontani da qua, perché non c’era ricaccio di erba. Questo si traduce in un maggiore impiego di tempo e fatica, per me e per gli animali: camminavamo per quasi due ore per trovare un filo verde. Tutto questo risucchia energia all’animale e si riversa in perdite di latte e di produzione».

Il cambiamento è un urto che sconvolge le certezze sedimentate e tramandate per generazioni; è una sfida che impone la messa in discussione anche a chi, con la lunga esperienza del tempo, è conoscitore delle più varie sfaccettature dell’imprevedibilità. È un cronometro che richiama all’urgenza di un adeguamento non più prorogabile. «Puoi reinvertarti finché vuoi e sicuramente ci sono cose che devono cambiare, ma non sempre è facile. L’anno scorso, per esempio, c’è stato un errore anche da parte mia, perché ho un po’ sottovalutato la qualità del foraggio reduce dall’estate di siccità e in autunno mi sono ritrovata con mezzo gregge non gravido. L’ho sottoposto a ecografie ed esami del sangue per escludere patologie gravi e quello che è emerso è stata una carenza di energia e vitamina. Dovevo prevederlo e integrare un’alimentazione naturale impoverita dall’arsura con blocchi di sali minerali. Il mio errore è stato fare come ho sempre fatto».

L’adeguamento comporta però anche una controparte, perché alla necessità di aumentare mangime, si affianca l’incremento del costo delle materie prime, conseguenza congiunta del rialzo del gas e dell’assenza di acqua ed erba. «In base a quelli che sono stati gli aumenti, dovrei tornare al mercato vendendo i miei prodotti al doppio, perché la mia spesa è stata esattamente duplicata rispetto al passato. Ma chi me lo compra il formaggio al doppio?».
«Bisognerà iniziare a rivalutare anche il carico di animali, perché se prima un ettaro era sufficiente per sfamare un certo numero di bestie, adesso essendoci meno foraggio questo numero diminuisce. Il problema è che spesso con meno animali non si campa: al dispiacere di dire “vendo metà gregge” si somma il fatto che con un numero di capi ridotto non mi pago le spese degli investimenti che ho fatto». Mentre parla, Marta è nella stalla. Si sporge da un recinto e una delle sue capre le salta in braccio. La accarezza e la osserva: «non sono molto ottimista. Non credo che siamo disposti a rinunciare a tante cose che il benessere ha portato e il cui contro è andare a devastare la natura. Stiamo continuando a sfruttare in nome del consumismo: penso che dovremmo invertire la rotta e tornare indietro su molti aspetti, ma credo anche che la nostra società, piuttosto che accettare la rinuncia, andrà verso l’estinzione».

Diversificare per resistere

La necessità di sopperire alle carenze della natura con integrazioni artificiali e la riduzione degli animali sono riflessioni e problemi condivisi anche da Alberto Fossati, che da diciotto anni ha trasformato una passione di famiglia nel proprio mestiere: produrre miele in alta montagna. «L’acqua è la vita: per i fiori, per le api stesse, per nutrire le larve, per il confezionamento del miele». Rododendro, melata d’abete, millefiori sono l’esito, certificato bio e dotato di presidio slow food, dei quattrocento alveari che l’azienda apistica Fossati ha diramato nella Valle Stura. Anche questo settore è stato, nelle ultime annate, messo alla prova dalla siccità. 

«La stagione produttiva si è accorciata molto rispetto a dieci anni fa – spiega Alberto –. Adesso le api arrivano a fine luglio senza trovare alcun fiore e fino all’inizio della primavera successiva non raccolgono quasi più niente. Il miele che dovrebbe rappresentare una scorta per i mesi freddi si esaurisce già ad agosto e questo ci costringe ad intervenire con un’alimentazione zuccherina integrata». Il limite di soluzioni come questa è che anch’esse necessitano di acqua per essere avviate, e così il circolo vizioso si ripete e annoda e ripete ancora. Molti campi sono stati destinati alla coltivazione di fiori e grano saraceno che tuttavia a causa di piogge estive mancanti e sistemi di irrigazione obsoleti non possono dare frutto. «La regina stessa risente della siccità e non depone più uova. Le famiglie si rimpiccioliscono e faticano a sopravvivere per tutto l’arco invernale».

«L’acqua è la vita: senza acqua non ci sono fiori, la regina non depone uova, le famiglie si rimpiccioliscono e la stagione produttiva si è accorciata molto rispetto a dieci anni fa», racconta Alberto Fossati.

Per far fronte al problema, l’azienda ha intrapreso la via della diversificazione: «seminando grano saraceno stiamo inaugurando una filiera per la produzione di farina, da utilizzare in valle anche grazie al supporto di panettieri e ristoratori. Abbiamo creato l’“apiario del benessere”, per stimolare la conoscenza delle api da vicino e in totale sicurezza, e costruito degli appartamenti ad uso turistico. Cercheremo di ancorare sempre più il prodotto al territorio per valorizzarlo, anche se temo che sarà sempre peggio e fatico a vedere soluzioni veramente efficaci».

Coltivare e trasmettere la bellezza

Dalle montagne il bacino del Po si estende alla valle, dove contribuisce ad alimentare la ricchezza poliedrica delle colture dei territori che attraversa. Tra i protagonisti che oggi soffrono la mancanza di acqua figurano anche le viti delle Langhe.

Era il 1968 quando Aldo Vaira ha scelto di abbandonare la città di Torino per trasferirsi nelle vigne di famiglia a Barolo. Una scelta di vita, dettata dall’amore per la terra che ha iniziato a coltivare per poi trasmettere ai figli. «Per me essere viticoltore significa collaborare con la natura e amarla: è una forma di rispetto per chi mi ha lasciato queste terre», spiega. Per Vaira tutto si traduce in lavoro quotidiano e attenzione ai dettagli, dietro cui si cela il senso della sua quotidianità: la bellezza. «Vorrei pensare di fare parte degli architetti della bellezza. Ognuno fa il suo: con la coltivazione, con le opere d’arte, con i libri. Chiunque di noi appartiene alla terra e io lo esplicito con la coltivazione della vite».

In questo processo si è inserito da diversi mesi un altro ingrediente: la siccità. «Per noi l’acqua rappresenta quasi tutto», chiarisce Vaira. Un elemento che qualche anno fa era dato per scontato sta diventando un bene prezioso, cui dedicare particolare cura. Nella produzione di vino gli effetti di ciò che accade oggi si vedranno tra molti anni, con perdite che «in periodi siccitosi possono arrivare al 30%»: i danni causati dalla siccità, quindi, continueranno. «Viviamo sempre con la paura di avere meno acqua e meno scorte ogni giorno»: così la capacità di reazione e adattamento diventa possibilità di sopravvivere. «È chiaro che il nostro è un lavoro di fiducia e di fede – spiega –. Siccità o non siccità, è un mestiere di adattamento e ogni anno vogliamo avere la speranza che l’acqua sia sufficiente per permettere alle piante di sopravvivere e di darci da vivere».

«Vorrei pensare di fare parte degli architetti della bellezza. Ognuno fa il suo: con la coltivazione, con le opere d’arte, con i libri. Ciascuno di noi appartiene alla terra e io lo esplicito con la coltivazione della vite» – Aldo Vaira.

Produrre vino nelle Langhe come Vaira equivale a poter contare su un terreno peculiare: la presenza di argilla in parte mitiga gli effetti della carenza idrica, perché trattenendo l’acqua in grande quantità ne limita l’evaporazione e favorisce l’assorbimento da parte delle radici. «È un bellissimo fenomeno chimico e fisico. Conoscerne le proprietà ci permette di avere fiducia in una natura resiliente e capace di autogestirsi: le piante regolano da sole le risorse idriche e nutritive anche in condizioni di siccità, riducendo lo sviluppo vegetativo».

La quantità di vino non è l’unica variabile. Ci sono altri ingranaggi dell’ecosistema invisibili per il consumatore ma fondamentali per il produttore: dalle foglie delle viti all’erba che le circonda, tutto dipende dall’acqua. «Cambia la copertura vegetale, le lavorazioni del terreno e la quantità di erbe che crescono tutto intorno – specifica Vaira –. Varia anche la gestione dell’apparato fogliare, cioè quante foglie lasciare e come trattarle».

L’eredità che trasmette ai figli non è solo tradizione e vigneti, ma il patrimonio di una sapienza che poggiando sull’esempio del passato diventa base per una crescita futura. «Alla fine di ogni anno ci fermiamo e osserviamo quanto accaduto, per capire se possiamo imparare qualcosa e trasmetterla, per lasciare dopo di noi un po’ di storia e accrescere il bagaglio di conoscenza».

La storia della famiglia Vaira attraversa siccità e anni piovosi, gelate e caldo torrido. «Penso che ci siano dei cicli e che noi facciamo parte di uno di questi. Quanto durerà non lo so», riflette ricordando il sole battente degli anni Venti e gli acquazzoni degli anni Settanta. Per questo secondo Vaira la parola d’ordine rimane una: adattamento. «Il lavoro del contadino sta nel sapersi adattare giorno per giorno alla natura: vorrei sfatare il luogo comune che fa invece di questa figura una vittima impotente del tempo – spiega –. E allora io vorrei dire ai miei figli che la bellezza del nostro lavoro è proprio quella di abbracciare questo tempo e questo clima. Se è caldo ringraziamo che è caldo, se è freddo ringraziamo che è freddo. Dobbiamo adattarci, come fa la vite».

L’incertezza causata dal cambiamento climatico, però, non fa venire meno la perfezione della terra. Per Vaira si tratta di un difetto ciclico: «Voglio abbracciare la natura e amarla, come si fa con le persone, con i loro difetti e imperfezioni. Amo questo lavoro e questi vigneti: vorrei che i nostri figli li amassero solo così – conclude –. Null’altro che questo».