Il 23 maggio ricorre il trentesimo anniversario della strage di Capaci dove persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. L’evento più significativo, insieme al successivo attentato di Via D’Amelio a Paolo Borsellino, della stagione più sanguinaria di Cosa Nostra.

Il rapporto tra cinema e mafia è sempre stato proficuo e ha regalato al mondo cinematografico dei capolavori intramontabili, su tutti Il Padrino di Francis Coppola che quest’anno compie cinquanta anni.Noi abbiamo scelto di concentrarci sulla mafia siciliana, con quattro titoli che rappresentano le origini e lo sviluppo del fenomeno malavitoso.

In nome della legge, Pietro Germi (1949)

in nome della legge

Faccia pulita, lineamenti da primo della classe, morale di ferro e cuore buono capace di amare: Mario Girotti interpreta il pretore Guido Schiavi nel film di Pietro Germi In nome della Legge (1949). Schiavi è inviato da Palermo nella cittadina di Capofranco dove la mafia strozza l’economia del paese e alimenta l’omertà degli abitanti. Il giovane magistrato se la dovrà vedere con Turi Passalacqua (Charles Vanel) il capomafia e con il barone LoVasto (Camillo Mastrocinque) accoppiata che gestisce la legge del luogo: un codice costituito da usanze arcaiche dove chi ha la lupara vince su chi non ce l’ha. E proprio in questo sentimento collettivo del branco, dove non si calpestano le zampe al maschio alpha, i protagonisti giocano una partita a scacchi fatta di alleanze, lotte, amori e sparatorie. Legge dello Stato contro legge della mafia: giustizia pubblica contro giustizia di grilletto. 

Il film fu definito all’uscita il primo western italiano ma la missione del regista era quella di denunciare, con lucida analisi, un sistema corrotto alle fondamenta: nel discorso finale di Schiavi davanti alla folla del paese il magistrato accusa tutti gli abitanti. Nessuno si salva. Se mafia molto spesso significa silenzio ecco che ognuno è complice d’ignavia. Ogni persona che non denuncia davanti ai reati che vede commessi.  

I meriti di Germi in questo film, oltre alla narrazione pulita e ritmata, è la corretta interpretazione di un di un sistema che già nel 1949 appariva chiaro a chi avesse semplicemente la voglia di studiarlo. “Io rimarrò in questo paese fin quando un colpo di lupara non mi raggiungerà al petto. In nome della Legge”, sono le ultime parole di Guido Schiavi davanti alla folla silente: seppur di finzione, la prima presa di posizione dello Stato davanti alle mafie.  

Lorenzo Buonarosa

Salvatore Giuliano, Francesco Rosi (1962)

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Per raccontare la parabola di Salvatore Giuliano non c’è modo migliore che iniziare dalla sua morte, tutt’ora avvolta nel mistero. Francesco Rosi parte proprio con uno dei quadri più famosi della cinematografia italiana, una delle poche scene, forse l’unica, dove lo spettatore può vedere per intero il protagonista. Il film si districa in maniera continua tra le vicende giudiziarie del 1950 e gli eventi degli anni Quaranta: dalle prime azioni della banda di Giuliano con l’EVIS (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia), la collaborazione con la mafia, i sequestri, fino alla sua morte per mano del cugino Gaspare Pisciotta. Quest’ultimo è il reale protagonista, soprattutto nella seconda metà del film, quando con la sua confessione rivelerà i legami tra polizia, Stato e malavita.

Lo stile semi documentaristico di Salvatore Giuliano lo rende un’opera rivoluzionaria cinematograficamente, a tratti persino premonitoria di certe immagini che di lì a quaranta anni entreranno nell’immaginario collettivo. Il processo di Viterbo con i banditi riportano alla mente le scene del Maxiprocesso, le memorie di Giuliano, dove secondo Pisciotta sarebbero scritti i nomi dei politici e dei mandanti della strage di Portella della Ginestra, scomparse come l’agenda di Borsellino. L’eccidio del primo maggio del 1947 è posto al centro del film e rappresenta il punto di ancoraggio di tutta la pellicola. Uno dei numerosi campi lunghi del lungometraggio, reso ancora più vivo dalla superba fotografia di Gianni di Venanzo. Suggestive e inquietanti le scene notturne girate nel centro di Montelepre.

Salvatore Giuliano riscosse un grande successo al botteghino, ma all’incensatura dei critici non corrispose l’entusiasmo degli spettatori comuni, riversatisi in sala con la convinzione di vedere glorificato il loro mito. Invece, Rosi non lo fa mai vedere in azione: Giuliano è un bandito rimasto intrappolato tra giochi di potere, sfruttato dalla mafia siciliana di cui il regista offre una rappresentazione storica di altissimo valore.

Samuele Valori

I cento passi, Marco Tullio Giordana (2000)

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“La disciplina, l’influenza…hanno deciso così a Roma, hanno deciso così a Palermo. E noi, quando decidiamo?”

Un grande attaccamento alla vita e al senso di giustizia pervadono la figura di Peppino Impastato, artefice di una continua e coraggiosa lotta alla mafia siciliana, portata sul grande schermo da Marco Tullio Giordana.

Il film ripercorre la persistente lotta che Peppino ha fatto alla mafia di Cinisi, alla rete omertosa di rapporti, scambi, favori, connivenze che pervade tutto il tessuto sociale, che inquina i legami famigliari, che contamina il potere, che gestisce il mercato della droga. Un Golia gigantesco, che viene sfidato dal giovane Peppino, che ha qui il volto di Luigi Lo Cascio, premiato per il ruolo con il David di Donatello.

Di fronte ad una mafia diventata a tutti gli effetti sistema, rete dalle maglie strettissime, l’unica che realmente muove le acque paludosi della provincia di Palermo, Peppino non ha avuto paura di prendere a sassate questo Golia a colpi di denunce, urlate dai microfoni di radio Aut e scritta tra le colonne di articoli che fin dal titolo declamano lo stato di “merdosità” della mafia. Non importa se la mafia ce l’hai in casa, se tuo padre è stato connivente, se fin da bambino ti sei trovato a pranzo con i boss, se abiti a soli cento passi di distanza dal boss Tano Badalamenti, Peppino rappresenta l’alternativa, l’aut, il volta faccia al sistema della paludosità, della ragnatela, dell’inquinamento, il riappropriarsi del proprio paesino, della propria vita, della libertà di scegliere di vivere secondo la dea della legalità.

Questo fuoco lo infiamma fin da bambino quando, ai comizi deserti in piazza, ha capito che il suo obiettivo sarebbe stato quello di tornare a far “abituare la gente a riconoscere la bellezza”. Le sue armi sono le parole oneste, sincere, che tagliano l’etere, che infuocano le pagine di giornali, che non hanno paura di prendere in giro i mafiosi in radio, di smascherare le illegalità che commettono. Peppino è libero come le parole che passano dalla sua radio, che non hanno paura di definire Badalamenti “Tano seduto, grande capo dei mafiosi”, e di tornare a declamargli L’infinito leopardiano, non più nella veste originale di quando era bambino e la recitava ai pranzi con i boss ma in quella riadattata al suo ruolo di giornalista coraggioso, di megafono della verità.

Questo guizzo di vita e coraggio è al centro del film e della breve esistenza di Peppino, e ne è a tutti gli effetti l’eredità più importante che ci lascia. Una parabola destinata a cadere nel silenzio omertoso che avvolge la barbara uccisione di Peppino, morto all’età di 30 anni dopo essere stato picchiato, legato ai binari, fatto saltare con l’esplosivo.

Le acque tornano a imputridirsi, la palude ristagna, le stesse forze dell’ordine e il Paese voltano la faccia omertosamente all’omicidio, si adagiano sulla comoda ricostruzione del suicidio, sulla falsariga di Pinelli e Feltrinelli, e rivolgono tutta l’attenzione al ritrovamento del cadavere, proprio quel giorno, di Aldo Moro.

Alla fine, forse, “la mafia la vogliamo perché ci da sicurezza, ci piace”, come denuncia l’amico di Peppino, eppure la vicenda di questo uomo coraggioso continua a parlarci ancora oggi, e a farci sentire la sua graffiante ironia, le sue denunce, la brezza della radio e delle parole libere.

Eleonora Bufoli