Andrea Camilleri è stato tra gli scrittori italiani di maggior successo, noto soprattutto al grande pubblico – italiano ed internazionale – per la serie di romanzi gialli con protagonista il commissario Salvo Montalbano. Tuttavia, lo scrittore nato a Porto Empedocle nel 1925, è stato molto di più che un romanziere o giallista di successo, avendo all’attivo anche produzioni poetiche, teatrali, radiotelevisive, saggi e articoli di giornale. 

Tra le righe della finzione romanzesca, Camilleri si serve della letteratura per raccontare ai propri lettori il fascismo, i fascisti e relative esperienze collaterali – come ad esempio la propaganda o il colonialismo nel continente africano – invitando ad una riflessione o ad una presa di posizione su una cruciale pagina storica del nostro Paese e su cui ancora oggi non c’è unanime valutazione. 

Nella sua ricca e poliedrica attività intellettuale – oggi in buona parte accessibile anche grazie all’encomiabile lavoro del Camilleri Fans Club, consultabile onlineAndrea Camilleri ha avuto modo in più occasioni di confrontarsi col fascismo, periodo che ne ha segnato l’infanzia e l’adolescenza, essendo nato e cresciuto durante il Ventennio. Un confronto avvenuto anche all’interno di alcuni suoi romanzi – che rientrano in un filone che tanto lo scrittore quanto la critica sono soliti indicare come storici – in cui il fascismo non si limita alla funzione di ambientazione storica. Si tratta di opere in cui Camilleri induce il lettore alla riflessione, attraverso le dinamiche della trama e l’azione dei personaggi che vi prendono parte, senza tralasciare il ricorso ad armi tipiche della sua scrittura, come l’ironia beffarda, la riproduzione di carte e documenti, l’indagine poliziesca. Si propongono qui i tre romanzi più rappresentativi.

La presa di Macallè (2003)

Camilleri è già diventato un acclamato e studiato “caso” letterario quando, all’inizio del nuovo millennio, decide per la prima volta di ambientare un romanzo storico nella “sua” Vigàta di piena epoca fascista. Gli anni di riferimento, come suggerisce il titolo, sono quelli del 1935-36, in cui Mussolini riempie le piazze, le scuole, le chiese e le case degli italiani per esaltare la spedizione coloniale in Abissinia, il cui acme fu proprio l’assalto alla roccaforte di Macallè. All’impresa patriottica vorrebbe partecipare anche il piccolo Michelino Sterlini, bambino di sei anni protagonista del romanzo e che Camilleri, suscitando (amare) risate ma soprattutto grande scandalo nei suoi lettori e in parte della critica, elegge a metafora vivente dell’ostentato virilismo di quegli anni, dotandolo di organi genitali sproporzionati. Il romanzo racconta l’infanzia del bambino, stravolta a partire dalla famiglia, istituzione cardine della propaganda di quegli anni: entrambi i genitori, che plasmano l’educazione del figlio sulla rigorosa obbedienza a Gesù e al Duce, sono in realtà degli impenitenti traditori, trascinati – non meno di altri personaggi – nella spire di una sessualità volutamente torbida e violenta in cui per via del priapesco dono di natura, finisce anche l’innocente bambino, abusato sia a livello psicologico che fisico. Michilino viene puntualmente ingannato anche dagli altri “mentori” che incontra sul suo percorso: la cugina Marietta, il sacerdote donnaiolo patre Burruano, il maestro fascista Olimpio Gorgerino. Michilino finisce così, armato di moschetto da balilla, per costruirsi e per vivere in un universo tutto suo, in cui tutto diventa lecito e immune dal pericolo di compiere peccato. Anche ammazzare un altro bambino soltanto perché figlio di comunista, non uomo ma animale alla stessa stregua dei bissini, feroci e sarbaggi, in base a quanto insegnano in casa, in chiesa e nella pantomima celebrativa della presa di Macallè, che viene inscenata da Michelino e i suoi coetanei all’interno del romanzo. Sedotto e abbandonato, come l’Italia del tempo, Michelino viene profanato al punto tale da non avere più una coscienza critica, incapace di distinguere cosa è reale e cosa non lo è, in un delirio progressivo in cui l’ideale enfant prodige modellato dalla cultura fascista finisce per distruggere ed autodistruggersi. 

Privo di titolo (2005) 

La riflessione sulle storture del regime mussoliniano all’interno della narrativa di Andrea Camilleri continua anche in  Privo di titolo la cui gestazione è molto più impegnativa e precedente anche a Macallè, come riferì Camilleri in alcuni libri-intervista scritti a quattro mano con Marcello Sorgi e Saverio Lodato. Anche in questo caso, dato il tema trattato, l’accoglienza non fu delle migliori, al punto tale che ne scaturirono polemiche preventive – e si potrebbe aggiungere anche prevenute – ancor prima della pubblicazione. Camilleri attinge a libri di storia locale per intrecciare, rielaborandole in maniera narrativa, due storie accadute nella Sicilia fascista: la morte del giovane militante Luigino Gattuso, avvenuta a Caltanissetta nel 1921 e l’episodio della (non) fondazione di Mussolinia, successivo di circa un decennio e che prevedeva, nel progetto, la realizzazione – pompata e approvata dal Duce in persona – di una fastosa città-giardino nelle vicinanze di Caltagirone, nella Sicilia centro-orientale. Col piglio inquisitorio tipico del miglior Montalbano, il narratore Camilleri porta il suo lettore a smascherare complicità e traccheggi di fascisti, istituzioni e autorità locali – mentre evolvono da membri di un movimento a uomini di regime – per insabbiare la verità relativa alla morte del militante Lillino Grattuso. Anche col ricorso a prove suppletive che provengono da incartamenti vari e tecniche cinematografiche, il romanzo tende a demolire dalle fondamenta l’edificio propagandistico del “martire fascista”, costruito mettendo alla gogna morale e giuridica un innocente muratore di simpatie comuniste, vittima di un pestaggio concordato. Il lettore viene così instradato verso una sciasciana divaricazione della verità, tra quella ufficiale e quella reale, che nel romanzo si concretizza nel parallelo episodio di Mussolinia, peraltro presente anni prima in alcune pagine dell’amico e mentore di Racalmuto. «Non è un martire fascista il ragazzo, non c’è Mussolinia. Ma tutte e due le cose non esistenti sono esistite a lungo in quel mondo a un tempo stesso reale e irreale che è stato il fascismo», dichiarò Camilleri pochi anni dopo a Gianni Bonina. 

Il nipote del Negus (2010) 

Già in Privo di titolo, proprio nelle pagine dedicate alla farsesca cerimonia di fondazione della città fantasma, Camilleri aveva assunto un registro narrativo tragicomico, fino al punto da rendere macchiette alcuni personaggi, tra cui anche il Duce in persona. Questa aperta messa in ridicolo delle autorità fasciste locali e nazionali trova luogo anche ne Il nipote del Negus, laddove Camilleri torna ad ispirarsi a pagine di storia siciliana di epoca fascista secondo cui nell’isola soggiornò per alcuni anni un nipote dell’imperatore etiope Hailé Selassié e che nel romanzo è riadattato come giovane principe Ghrane Sollassié Mbssa. Il suo arrivo a Vigàta viene colto dal duce come l’occasione propizia per una “lungimirante” operazione di politica estera nel Corno d’Africa, da condurre proprio attraverso un’autentica strumentalizzazione del ragazzo dal sangue blu, che «benché Principe, è pur sempre un negro», come dice uno dei personaggi rappresentanti del regime. Servito e riverito senza badare a spese – oltre che a minacce, soprusi e ritorsioni varie – il giovane finisce per spassarsela e diventare artefice di una sagace contro-beffa che demistifica e deride le autorità fasciste senza che ciò avvenga mai in maniera diretta, perché quanto accade lo si apprende da verbali, pagine di giornali, lettere private e incartamenti vari che non lasciano spazio a sequenze di carattere narrativo.