Una ruota saltata mentre l’auto di rappresentanza sfrecciava in velocità verso la cittadina di Mokrina. È bastato un piccolo incidente, nell’ennesima domenica rovente delle proteste studentesche, per mettere alla prova i nervi e i timori del presidente serbo Aleksandar Vučić. «Ha perso una gomma» hanno liquidato i titoloni in prima pagina e, alla fine, la colpa sembra essere davvero un cerchione difettoso che, secondo la stampa locale, non dovrebbe aver causato più di qualche ammaccatura. «Bisogna incrementare le misure di sicurezza per il presidente» ha scherzato lui stesso. Ma intanto, le forze dell’ordine hanno già aperto un’indagine interna perché non si sa mai. È l’ultimo atto di una fase cruciale nel Paese. Poco più di una settimana fa gli studenti tornavano in piazza per ricordare i cento giorni da un altro incidente, quello alla stazione ferroviaria di Novi Sad (seconda città della Serbia), che il 1° novembre scorso ha lasciato quindici pendolari sotto le macerie di un tettoia da poco ristrutturata dando il via alla più grande manifestazione di massa contro il sistema dai tempi della dittatura Milosevic. Ancora una volta, ora come all’inizio del nuovo millennio, la protesta è cresciuta partendo dalle aule universitarie e non si è fermata neppure in quest’ultimo acceso weekend.

Incroci bloccati, ponti occupati, staffette da una città all’altra per portare messaggi come nell’antica Grecia, traffico e circolazione paralizzati. Lo schema si ripete sempre uguale, da Novi Sad a Nis fino a Belgrado e dal centro ai sobborghi. In occasione dell’anniversario, il primo febbraio, era toccato proprio al luogo della tragedia diventare l’ombelico della rivolta pacifica, con migliaia di studenti schierati a sbarrarne l’ingresso da fuori in tre direzioni, supportati da agricoltori e motociclisti nonostante il tentato blocco da parte della polizia. Ieri invece a guidare il movimento è stata la facoltà di Agraria della capitale, che ha organizzato l’occupazione del ponte della Gazela, il più grande e importante in città, per sei lunghe ore. I partecipanti hanno commemorato le vittime osservando quindici minuti di silenzio e poi lanciando quindici rose dal ponte nel fiume crocevia tra Sava e Danubio. È il numero da ricordare e anche la data da segnare sul calendario: tre mesi di marce e rivolte settimanali costanti e martellanti, annuncia il quotidiano Bilc, culmineranno infatti il prossimo 15 febbraio in una grande mobilitazione generale a Kragujevac, maggiore centro abitato del distretto di Šumadja. Prevista- non a caso- per il giorno di Sretenje, festa religiosa ortodossa e soprattutto ricorrenza nazionale della rivoluzione che nel 1804 portò alla prima insurrezione serba contro l’occupazione ottomana.

Stavolta, la meglio gioventù del Paese ha messo in atto la sua ribellione contro i nuovi occupanti, una classe dirigente e politica corrotta che si arricchisce come spesso accade sulla pelle dei cittadini. E forse anche contro una generazione, quella dei genitori, che nel Duemila ha abbattuto il tiranno per ritrovarsene pochi anni dopo un altro. Uno dal nome simile a quello dell’ex primo ministro e presidente del Partito Progressista Serbo Milos Vucevic, dimessosi a un anno dalla nomina il 28 gennaio. Il mondo, specie i media europei, hanno guardato (o forse voluto guardare) troppo tardi a ciò che accade già da tre mesi e che è cominciato da un ponte, metafora simbolica dei passaggi storici nella ex Jugoslavia, da Mostar a Novi Sad.

I retroscena: Vucic e la corruzione dilagante

«Il dramma della tettoia crollata è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La stazione era appena stata ristrutturata con il coinvolgimento di due consorzi cinesi dai contratti poco trasparenti e dalle poche norme di sicurezza nel cantiere, che alla fine hanno fatto sborsare allo Stato più di 60 milioni di euro. Dopo il primo mese, la Procura non ha avviato un processo di indagine serio e gli studenti hanno cominciato ad opporsi, a pretendere risposte dalle istituzioni, non dal presidente che prima si vantava del suo operato e poi negava qualsiasi responsabilità». A riassumere in una perfetta sintesi dinamica e scenari dietro all’incidente di quel tragico 1° novembre è Tatjana Dordevic, corrispondente dall’Italia per diversi media serbi e membro dell’Associazione Stampa Estera a Milano. Chi, come lei, è testimone della parabola del Paese nell’ultimo quarto di secolo conosce la rabbia di chi ha assaporato per poco il sogno di uno stato davvero democratico in cui vivere per poi ritrovarsi in quella che assomiglia più a un’oligarchia russofila. Il 22 novembre è iniziata la mobilitazione nella facoltà di Arti drammatiche, ma centinaia di studenti universitari hanno iniziato a confluire verso Novi Sad anche a piedi da fuori per chiedere verità e giustizia. Grazie alla solidarietà della popolazione, è cominciata l’occupazione dei principali tre ponti della città. Poi quella che doveva essere una tutt’altro che semplice ma comunque circoscritta dimostrazione di dissenso ha contagiato le scuole, i lavoratori comuni, fino a inglobare più di settanta mila persone solo nelle due metropoli. Il 24 gennaio è scattato lo sciopero generale e la rivolta ha fatto uno scatto di livello. Dietro lo slogan «La corruzione uccide» scandito ad alta voce nelle piazze e brandito con cartelli di protesta non c’era più solo la contestazione nei confronti del governo ma il rifiuto di una società malata e ormai corrosa dall’interno.

La giornalista Tatiana Djordjevic

La giornalista Tatiana Djordjevic

«Penso che questo sia l’inizio della fine di un regime che resiste da dodici anni e che non sappiamo quanto durerà» spiega Tatiana riferendosi alla controversa presidenza del nazionalista Vucic, al potere dal 2017 come capo dello Stato dopo tre anni da premier fra atteggiamenti dittatoriali e propositi di immortalità politica. «Viola la costituzione quasi ogni giorno – continua ironica- per esempio l’anno scorso è comparso in televisione 348 giorni in un anno. E si identifica con la nazione, assicurando di voler combattere chissà quali nemici esterni e interni, accusando i manifestanti di collaborare con i servizi segreti per spodestarlo e promettendo persino di essere disposto a morire per il Paese». Pochi giorni e il primo ministro Vucevic è crollato sotto il peso della colpa gettatagli addosso come capo del governo. Ma, spiega Djordjevic, «Lui è una vittima collaterale del presidente ,Vučić si è dimesso a causa dell’aggressione che alcuni attivisti del Partito Progressista – partito di governo- avrebbero portato avanti ai danni di un gruppo di dimostranti. Una ragazza è stata ferita alla testa con una mazza da baseball dal migliore amico di suo figlio. Comunque,Vučić pur non avendo previsto la sua uscita di scena, stava già meditando un rimpasto di governo». Non sono stati pochi i tentativi di repressione come questo, portata avanti dallo Stato per intimidire e soffocare il movimento, continuando ad assicurare il potere a chi è spalleggiato dal potere.[/msrk] Come «gli oligarchi, che hanno interessi economici enormi e fanno affari con l’Europa. Sono loro che comandano perché arrivano spesso da clan mafiosi e hanno legami con loro» è un copione già letto, che lega la Serbia al mito della sorella e “grande madre” Russia, con cui la tanto celebrata fratellanza basata sulla tradizione sarebbe molto più poetica che reale: «Non ci amiamo così tanto. La Russia spesso ci sfrutta per i suoi interessi» dice a questo proposito la corrispondente.

Mentre il presidente Vučić ha annunciato a sorpresa «grandi arresti nella lotta alla corruzione«, a demolire lui e il suo operato, dando manforte alla rivoluzione di cui molte nazioni balaniche avrebbero bisogno, ci hanno pensato anche i vicini. «Vučić è una persona di formazione problematica, con un carattere eroso e una morale compromessa, ed è pericoloso che una persona con tali caratteristiche detenga il potere assoluto. Il primo ministro e i ministri non sono indipendenti, sono marionette nelle sue mani e trascurano l’adempimento dei loro obblighi costituzionali e legali»  ha tuonato il ministro della Difesa bosniaco Zukan Helez descrivendo un quadro forse più realistico di quanto non si ammetta. C’è chi definisce questo momento storico «una nuova primavera serba» strizzando l’occhio alle svolte epocali che nel mondo arabo hanno seguito le grandi rivoluzioni. Per capirne l’importanza rispetto al passato recente del Paese però bisogna fare un passo indietro.

Una dimostrante contro i cordoni di polizia

Una dimostrante contro i cordoni di polizia

 

La dittatura di Milosevic

In molti puntano il dito contro le istituzioni europee, ree di aver chiuso un occhio per troppo tempo su ciò che accade, per convenienza e sottovalutazione del fenomeno. A confermarlo è anche Tatiana, memoria storica diretta del 5 ottobre 2000, il giorno in cui l’allora presidente socialista Slobodan Milosevic, in carica dal 1989 prima come presidente della Serbia e poi come leader della repubblica federale di Jugoslavia, fu sconfitto. Protagonista delle guerre nei Balcani, fu accusato di crimini contro l’umanità  per le operazioni di pulizia etnica contro i musulmani in Croazia, Bosnia e Kosovo. «Si pensa che noi serbi siamo abituati a fare rivolte, come in passato contro i brogli elettorali, le miniere di litio, la violenza. Questa volta è diverso, tutto è cominciato dagli studenti che si sono organizzati tra loro senza nessun leader. Sulla prima pagina del quotidiano La Stampa ho pubblicato uno tra i primi articoli in Italia sul tema solo pochi giorni fa e il titolo che la redazione ha scelto mi ha stupito. Comunque, è vero, noi una primavera l’abbiamo già avuta. Io ero una studentessa al liceo allora e credevo che con la caduta di Milosevic la nostra società sarebbe diventata migliore. Ma dopo 25 anni ci ritroviamo in una situazione tutto sommato simile» rievoca con amarezza Djordjevic. Le proteste iniziarono nel 1996 contro le guerre e il regime, per proseguire nei quattro anni successivi in un tira e molla che ricorda da vicino quanto è nato a Novi Sad. Il passato ritorna come il famoso fiume carsico, nonostante le profonde differenza generazionali e di rivendicazione che separano il presente dal quarto di secolo precedente.

Una nuova tappa storica?

Se dopo quella «rivoluzione d’ottobre» dal tepore primaverile furono poste le basi per uno stato di diritto, ora la generazione Z pretende di sfruttare la crisi per far compiere alla Serbia un passo avanti decisivo. Chi governa oggi è la stessa classe politica che negli anni Novanta era compromessa con il regime, Vučić compreso, e un colpo di spugna «proietterebbe il Paese nel presente e in un futuro da scrivere». I giovani possono riscrivere la storia dunque e lo scenario migliore da augurarsi per ora sembra un governo tecnico di transizione in grado di aprire la strada a nuove elezioni democratiche, che a Belgrado non si vedono da anni. Ma senza un reale sostegno dell’Europa il popolo serbo dovrà farcela da solo e i passi falsi sono dietro l’angolo. Come sa bene la giornalista: «Il momento è ora, non so se e quando avremo una seconda chance. Le stesse proteste stanno iniziando a prendere piede anche in Montenegro, in Bosnia, in tutti i contesti dove i problemi sono gli stessi. È il merito di questi nuovi giovani, che riescono a “contagiarsi” trasmettendosi il coraggio necessario. Vučić però non ha nessuna intenzione di formare un governo tecnico né di convocare elezioni democratiche, che è invece proprio una delle loro richieste. Sono stati più volte invitati a confrontarsi con lui per visionare prove e documenti, ma si rifiutano. Non vogliono parole dallo Stato e dal sistema giuridico, pretendono solo che ognuno faccia il suo lavoro». E, dato ancora più particolare, non cercano il sostegno delle opposizioni di cui «non si fidano perché in questi anni non hanno fatto nulla».

Ma davvero senza un sostegno o una rappresentanza politica questi ragazzi possono cambiare il futuro della Serbia? Dalla loro parte c’è tanto spirito di iniziativa, nuovi mezzi a disposizione e la fiducia in un avvenire migliore che solo nei più giovani sa essere tanto ostinata. «Potrebbero creare un loro movimento di rappresentanza politica con cui chiedere e presentarsi a eventuali elezioni. Non so cosa succederà, ma so che abbiamo sottovalutato questi ragazzi. Sono più svegli e veloci anche se non hanno vissuto la guerra in prima persona come noi. Per anni, abbiamo creduto che non si informassero, che non si interessassero al loro Paese ma il trauma transgenerazionale che hanno vissuto i loro genitori si è trasmesso a loro. Non leggono i giornali, usano canali diversi ma hanno consapevolezza di ciò che è accaduto e hanno reagito scegliendo di voler vivere in una Serbia normale e che possa offrire qualche opportunità in più» commenta speranzosa. «Noi allora ce ne siamo andati per cercare una vita migliore. Il loro obiettivo è restare, poter lavorare e realizzarsi senza dover avere una tessera di partito in mano per farlo».