Paolo Di Stefano (Avola, 1956),  giornalista e scrittore, è inviato speciale del Corriere della Sera, dove è stato responsabile delle pagine culturali. Dopo la laurea in Filologia romanza conseguita con Cesare Segre all’Università di Pavia, ha collaborato con il Corriere del Ticino e con Repubblica.  È autore di reportage, saggi critico-letterari, racconti e poesie, ma soprattutto di romanzi. Tra i più noti: Baci da non ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo azzurro (Feltrinelli 1996, Premio Grinzane Cavour); Tutti contenti (Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio Flaiano, Premio Palmi, Premio Letterario Chianti); La catastròfa (Sellerio 2011, Premio Volponi); e Giallo d’Avola (Sellerio 2013, Premio Sebastiano Addamo, Premio Viareggio-Rèpaci e Premio Comisso).

Cosa l’ha spinta a raccogliere le storie di italiani non illustri confluite nel suo libro Ogni altra vita (Il Saggiatore, Milano 2015)?

«Come rarissimamente accade, me l’ha chiesto l’editore del Saggiatore, Luca Formenton. Io avevo fatto dei racconti di realtà per il Corriere della Sera in sette o otto puntate, un’estate, che attingevano dall’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano e l’editore mi ha chiesto di raccoglierle. In realtà io ho riscritto tutto. Credo poco ai libri che raccolgono testi giornalistici: se non sono postumi secondo me non hanno senso perché la scrittura giornalistica è concepita per un quotidiano o per un settimanale e ha dei criteri di spazio e di tempo che non valgono per il libro. Il libro ha dei suoi obblighi, che non sono quelli del giornale, e ha anche delle sue libertà inventive ed espressive, che invece non sono ammesse nel giornalismo. Quindi ho riscritto tutto, riprendendo le stesse biografie di gente comune e aggiungendone altre, scrivendole con un respiro più ampio e con punti di vista cangianti, inoltre cercando delle connessioni tra le storie e trovandole a volte in maniera del tutto sorprendente anche per me. Alla fine ho sentito l’esigenza di non farne dei medaglioni singoli, isolati, e non mi bastavano quelle connessioni geografiche o temporali di cui parlavo prima. Cercavo qualche cosa di più che una coerenza: cercavo, più dentro di me che fuori di me, un filo che le tenesse insieme. È saltato fuori un filo autobiografico, che riguardava la storia della mia famiglia: mentre stavo lavorando a questo libro è morto mio padre e, ripercorrendo la sua vita, ho pensato che in tutte quelle storie c’era la sua figura. Dunque ho ripreso per l’ennesima volta il corpus di racconti e ho provato a far interagire la mia storia familiare con le storie degli altri, con ogni altra vita, in modo tale da sottolineare questo significato, che poi è il senso originario. Di darlo in maniera più forte e più evidente, di una partecipazione tra le vite proprie e le vite degli altri, come se si trattasse un po’ della stessa cosa e come se una vita entrasse dentro quella degli altri in una sorta di interdipendenza, perché non si può pensare che viviamo vite singole, atomiche: ogni esistenza si riverbera necessariamente nelle altre. Questo intreccio di vite si traduce poi anche in una coralità di voci che parlano in un modo molto singolare, quasi unico, ma appunto in un insieme, in una polifonia, con la forza – almeno spero – di trasmettere valori universali, quindi di parlarsi l’una con l’altra, quasi in una pluralità di voci singolari, per usare un ossimoro».

L’opera è considerata un grande esempio di giornalismo storico. Si richiama volutamente al filone degli ultimi e dei vinti narrati dai grandi scrittori dell’Ottocento come Manzoni e Verga?

«Sì, l’attenzione riservata agli ultimi e ai vinti è legata quasi biologicamente alla lettura di Manzoni e soprattutto di Verga. Io sono siciliano e per me I Malavoglia è un romanzo quasi archetipico, che rappresenta le mie radici al meglio, anzi che sento riverberare come un tappeto sonoro interiore. Il proposito più esplicito di questi racconti, già in origine, era quello di rivisitare l’Italia e la Storia attraverso le piccole storie: piccole storie che rivelano però, soprattutto nella prima parte del libro, una grande forza epica, civile, morale. Storie minime che custodiscono in sé, nel modo più vivido, i grandi temi: la morte, la vita, la guerra, il lavoro, la paternità, la maternità, i dolori, gli amori, la povertà, la fede, la politica, la famiglia, l’abbandono. Poi, com’è successo storicamente nel corso del Novecento, questi valori si vanno indebolendo e il libro dà proprio conto anche di questo scolorirsi di una comunità, di un senso della comunità e di un senso civile molto forte nel rapporto delle piccole storie con la grande Storia: si registra il progressivo chiudersi dentro piccoli mondi, che a volte sono purtroppo dei piccoli mondi claustrofobici in cui si consumano tragedie che per qualche giorno occupano le cronache nere dei giornali per poi essere dimenticate. Infatti gli ultimi racconti sono, paradossalmente, più drammatici dei primi: l’idea era proprio quella, cresciuta poi nell’elaborazione del libro, di raccontare la storia d’Italia dal basso, di affrontare i grandi temi da prospettive laterali e anche da voci così singolari e marginali. Poi c’è quello che la storiografia non può avere e che la letteratura può, anzi deve, aggiungere, cioè la dimensione emotiva, la compassione per i personaggi che parlano. Quella che Kundera chiama “l’immaginazione affettiva”, un’effervescenza anche sonora che non è della storiografia, perché la storiografia deve ricostruire i fatti e le loro motivazioni, mentre la prospettiva della letteratura è tutt’altra cosa: il quoziente di partecipazione e di soggettività è molto forte ed è indispensabile per andare in profondità».

Qual è l’operazione linguistica che c’è dietro?

«Tutti parlano a loro modo, in Ogni altra vita, con i loro idioletti a volte stranianti e le loro coloriture locali e regionali che vanno dalla Sicilia al Nord periferico e metropolitano. Io ho voluto conservare questo aspetto acustico, che però non mi pare sia particolarmente espressionista in senso gaddiano; però espressivo sì, ho voluto conservare quel colore che appartiene non all’esteriorità, ma all’intimità dei personaggi. Sono proprio loro, i protagonisti, che raccontano a proprio modo: per esempio c’è una donna ottantenne del mio paese – morta, fra l’altro, poco tempo fa – che si chiama Venera Costa e che racconta lo sbarco degli angloamericani in Sicilia. Io l’ho incontrata un pomeriggio ad Avola, a casa sua, e ha rievocato l’episodio a suo modo, con una capacità di visione, di immagine, di memoria e con una bellissima inflessione quasi dialettale, aggiungendo note e ricordi sul contesto familiare, sulla quotidianità, sui rapporti con il padre e con la madre. Naturalmente io sono gelosissimo della voce, non potrei mai rinunciare al tentativo di restituire il suono, la grana. Dopo di lei parla il Carlone, un vecchio contadino della campagna milanese che rievoca la campagna di Russia e poi l’8 settembre, la reclusione a Villa Triste a Milano, prigioniero della banda Koch, la polizia segreta fascista. Ne viene fuori un racconto rocambolesco, un miscuglio di tragico e comico esilarante che non sta solo nell’assurdità dei fatti narrati ma nel come quei fatti vengono narrati.

«Il giornalismo non può tenere conto in pieno dell’espressività, mentre la letteratura è più libera e a me piace moltissimo sperimentare»

L’operazione stilistica di resa della voce mi comporta un lavoro molto attento nel dosare ciò che devo tenere e ciò che devo necessariamente togliere per evitare un sovraccarico insostenibile. Ho imparato che nel come, nell’espressività, c’è la sostanza, il senso profondo e questa è anche un po’ la differenza che corre tra la letteratura e il giornalismo, che non può tenere conto in pieno dell’espressività, perché uno dei suoi imperativi è la chiarezza dell’esposizione e la disposizione logica del racconto. La letteratura no, la letteratura è più libera sia sul piano della costruzione sia sul piano della resa stilistica e a me piace moltissimo sperimentare ogni volta un tono, dosare, sintonizzare l’oralità con la scrittura, fare questo sforzo, che a volte è uno sforzo immane e anche rischioso. Il rischio è quello di cadere nel bozzetto, nella caricatura. Anche ne La catastròfa (Sellerio, Palermo 2011, premio Volponi, ndr), sulla tragedia mineraria di Marcinelle del 1956, le voci dei vecchi minatori, delle vedove e degli orfani si alternano mescolando i rispettivi dialetti con quel poco di italiano imparato a scuola nei paesi d’origine e con poi la patina di francese che si aggiunge a tutto, che è stato acquisito in Belgio. Il risultato sono esecuzioni vocali vertiginose, quasi poetiche in natura. Questa poesia in natura a me piace molto e sento quasi come un dovere fare questo sforzo di restituzione. Non solo il che cosa, che è lo scopo del giornalismo, ma il come parlano le persone. Io non credo che Pasolini avesse ragione quando parlava dell’omologazione linguistica: gli riconosco una chiaroveggenza antropologica, sociologica e politica formidabile, ma l’omologazione linguistica non è avvenuta completamente. L’Italia è ancora un serbatoio straordinario di linguaggi, viaggiando da Sud a Nord, come a me capita spesso: ci si accorge di una varietà molto viva. Noi siamo ricchissimi di espressioni diverse, regionali, di espressioni anche molto uniche, singolari, familiari; ognuno parla in modo diverso in Italia ed è sorprendente questa capacità di resistenza linguistica. Non si è compiuto l’appiattimento che Pasolini aveva previsto negli anni Sessanta e Settanta e questa secondo me è una grandissima risorsa per la nostra letteratura, una possibilità di respiro imprevedibile che credo verrà arricchita molto dalla nuova varietà linguistica proveniente dalle migrazioni».

Qual è l’aspetto più attuale di questa sua opera?

«Penso che uno dei problemi più seri della nostra cultura sia il rischio dell’oblio, cioè dimenticare cosa siamo stati, che riguarda non solo le giovani generazioni. Umberto Eco ha detto che senza memoria non si progetta il futuro: la memoria aiuta a costruire, a intervenire nel presente con coscienza e impegno. A ciò si aggiungono due elementi: da una parte la tendenza a delegare la propria memoria e le conoscenze alla tecnologia e dall’altra la difficoltà di comunicazione tra le generazioni, che compromette la possibilità di tramandare le esperienze, il passato, il sapere, la cultura. Nel 2002 ho pubblicato un libro sulla famiglia, La famiglia in bilico, per Feltrinelli, che erano delle piccole indagini dentro le case degli italiani sui rapporti tra genitori e figli. Un aspetto che veniva fuori molto forte era questa carenza di comunicazione che qualche volta si trasforma in mutismo: era come se le case in sé fossero una sorta di bunker privati, autosufficienti e però anche le stanze dei ragazzi e dei genitori erano spesso dei bunker autonomi e impermeabili. C’è mancanza di comunicazione e di capacità, anzi di voglia, di tramandare le cose: una volta i nonni avevano modo e tempo di raccontare la propria vita, i nipoti ascoltavano e avevano la possibilità di acquisire conoscenze private e collettive, sulla storia della famiglia, sulla guerra, sulla povertà, sul lavoro, sul mondo materiale e ideale.

«Uno dei problemi più seri della nostra cultura è il rischio dell’oblio, non solo per le giovani generazioni: dimenticare cosa siamo stati»

Non bisogna dimenticare che il vero motore del mondo è il rapporto che si crea tra le generazioni e il fatto che tra genitori e figli vengano sempre meno i conflitti non è confortante, perché il conflitto è spesso un momento di rinnovamento e di creatività. Viceversa, la tendenza dei genitori ad assecondare i figli annulla la vera comunicazione, appiattisce i rapporti, li addormenta, seda le insofferenze e la possibilità di cambiare, di sperare e di prospettare il futuro, di ribellarsi e quindi di proiettarsi verso il desiderio di un mondo migliore. È un discorso che ha riflessi culturali e persino politici.

Io credo che la letteratura, almeno come la intendo io in questo momento, possa rimediare a queste lacune, possa raccontare a suo modo storie private e pubbliche, colmare certi vuoti, far emergere piccole vicende epiche che riguardano la nostra collettività e che si sono disperse negli anni e nei decenni, pur essendo incarnate nel cuore di una storia collettiva dimenticata o rimossa. Nella mia “storia di italiani non illustri”, che si intitola Ogni altra vita, ho immaginato una specie di sinfonia di miserie e nobiltà, di umanità e inumanità del nostro Paese, un autoritratto composto da piccole biografie che incrociano la grande storia e a volte ne vengono investite. È un flusso di voci che si passano il testimone forse registrando, per lievi smottamenti progressivi, quel che eravamo e come siamo cambiati. Microstorie in cui riconoscersi, che diventano storie universali: raccolte anche per dare dignità e orgoglio e per rendere giustizia a certe persone e a certi personaggi che non l’hanno avuta. Per esempio tutta l’epica relativa a Marcinelle aveva proprio, per me, questo valore civile di far conoscere una tragica vicenda dell’emigrazione che l’Italia aveva rimosso e dimenticato».

Com’è cambiata la figura del giornalista culturale in Italia?

«Nei primi anni Novanta sono cambiati gli assetti collaudati e ormai sclerotizzati delle pagine culturali. È saltata però anche l’armonia tra l’aspetto critico e la dimensione giornalistica, che ha acquisito un rilievo maggiore. La famosa Terza Pagina, che appartiene alla tradizione del giornalismo italiano, nasce proprio con questo equilibrio: una pagina molto attenta all’attualità e alla cronaca, ma anche alla critica, cioè al giudizio sull’oggetto culturale, sia esso il libro, l’evento artistico, lo spettacolo musicale, teatrale o cinematografico. Con l’inizio degli anni Novanta questo equilibrio è andato un po’ in frantumi e l’aspetto, diciamo, giornalistico ha preso il sopravvento, tanto è vero che molti giornalisti sono stati chiamati a fare i recensori e il piano descrittivo è diventato preponderante rispetto al piano dell’analisi critica. Si è prodotta una progressiva sostituzione della figura del critico, in genere un accademico di prestigio, con la figura del giornalista culturale. Naturalmente, però, questo è successo anche perché si è dilatato il mercato editoriale, è cambiato il pubblico di riferimento, cioè il fruitore di cultura, così come è cambiato il rapporto tra i giornali e le case editrici. Sono aumentate moltissimo la complicità e il desiderio da parte dei giornali di essere, per esempio, i primi a promuovere i bestseller annunciati più che a criticarli. L’anticipazione è diventata un genere giornalistico e la recensione ha perso importanza. Meglio battere la concorrenza e arrivare primi sull’uscita di un romanzo di Eco che arrivare con un pezzo critico ponderato: la coordinata temporale è diventata importantissima, mentre prima non lo era. Il Corriere della Sera, nel 1980, si poteva permettere di recensire Il nome della rosa due mesi dopo la pubblicazione, dando molto più spazio a una raccolta di poesie di Giorgio Caproni. Non era ancora il tempo della corsa al bestseller, che sarebbe arrivato soprattutto con il secondo romanzo di Eco, nel 1988, quando si scatenò la battaglia all’anticipazione. Con la direzione Mieli, lo spostamento delle pagine culturali nella parte centrale del giornale, sul modello del paginone di Repubblica, ha praticamente fatto nascere la figura del giornalista culturale, non settoriale, letterario o musicale o teatrale, ma genericamente culturale, capace di muoversi con agilità e velocemente in vari ambiti. L’altro aspetto che è cambiato è la mescolanza di alto e basso, lo sdoganamento della cultura televisiva e dello spettacolo dentro i confini della cultura alta. Da allora, la critica non ha più riconquistato i vecchi fasti e il valore di un tempo».

In Italia c’è un rapporto fecondo tra editoria e critica letteraria?

«Gli uffici stampa editoriali aspirano più a un servizio giornalistico ampio e sufficientemente promozionale che a un vero e proprio intervento critico, e vengono accontentati spesso e volentieri. L’accordo di intesa tra editoria e giornali va al di là della scuderia del gruppo eventuale. Pur di arrivare primi nel parlare del nuovo romanzo di Jonathan Franzen, i quotidiani preferiscono ottenere l’intervista compiacente con l’autore più che la lettura preventiva del libro. Negli Stati Uniti la Book Review pretende le bozze con largo anticipo (tre-quattro mesi) perché il critico possa leggere con calma e senza garantire nulla sul tipo di giudizio. In Italia prevale la preoccupazione promozionale, che ha abbassato nettamente il filtro della selezione, in un momento in cui i filtri critici sarebbero richiesti al massimo grado, anche più che in passato, visto che il web è tutt’altra cosa, è l’indistinto senza gerarchie. Quel che accade, paradossalmente, è che i giornali trattano la letteratura adeguandosi ai metodi del web, pensando di attrarre un ipotetico lettore giovane e tecnologico. Il criterio è essenzialmente quantitativo, molto legato al gradimento del pubblico e con un occhio attentissimo alle classifiche, che finiscono per dettare legge. È lo stesso criterio dei blog letterari, dove vince il mercato, la quantità: si guarda al pubblico del passaparola digitale, mentre il pubblico dei giornali è tutt’altra cosa. Si enfatizzano i fenomeni editoriali di scarso livello e di grande successo, i blogger che scrivono romanzi che si impennano per qualche mese, autori di genere destinati a scomparire dopo una stagione di gloria. Si aspetta che Emmanuel Carrère abbia un successo straripante con Limonov per intervistarlo tutte le settimane o quasi, seguendo l’onda del gradimento, mentre Carrère da anni, quasi ignorato, scriveva romanzi molto belli. Ogni occasione è buona per parlare di Elena Ferrante solo quando diventa un caso americano. A mio parere è lo stesso errore che abbiamo fatto quando, sempre negli anni Novanta, siamo corsi dietro alla televisione senza valorizzare la specificità del nostro linguaggio giornalistico e del nostro lettore, non necessariamente coincidente con l’utente televisivo. Sono convinto che il lettore del quotidiano pretenda dal suo giornale una selezione più rigorosa rispetto a quel che gli può offrire internet. Siccome questo non avviene, il pubblico si stanca e la sua fiducia va scemando. C’è da meravigliarsi? Il giornale dovrebbe prendersi la responsabilità di orientare, di dare il proprio giudizio, anche sbagliando, ma senza ammiccamenti e furbizie, magari però aprendo discussioni sulla qualità dell’oggetto culturale, il tema cruciale del nostro tempo.

«In Italia prevale la preoccupazione promozionale, che ha abbassato il filtro della selezione, in un momento in cui i filtri critici sarebbero richiesti al massimo grado»

Diciamo che io non mi sento in sintonia con il cosiddetto mainstream dell’orizzontalità indifferenziata, credo che un po’ più di resistenza farebbe bene alla cultura e anche al marketing, cioè alla vendita dei giornali. Tra l’altro i critici di livello non mancano, giovani e meno giovani: da Franco Cordelli a Daniele Giglioli, da Raffaela Manica a Massimo Raffaeli, da Massimo Onofri a Gabriele Pedullà, da Giorgio Ficara a Matteo Marchesini, per fare solo alcuni nomi. Ma non godono della stessa fiducia incondizionata da parte dei giornali di cui godevano i grandi critici del passato, ingaggiati dalle diverse testate che se li contendevano perché sapevano che il lettore pretendeva autorevolezza e serietà. Oggi avviene poi un fatto assurdo: mentre un critico teatrale come Franco Cordelli, un critico televisivo come Aldo Grasso o un critico del cinema come Paolo Mereghetti hanno spazi adeguati con cadenza regolare di pubblicazione e sono figure riconosciute e autorevoli, la letteratura viene dispersa e affidata a più recensori sempre diversi. Secondo i quotidiani, la letteratura non richiede più lo stesso prestigio e la stessa fiducia che richiedono altri ambiti culturali. Anche le recensioni dei romanzi più importanti vengono affidate e distribuite tra tante persone diverse che non hanno quel prestigio e quell’autorevolezza di cui parlavo, creando una dispersione e un’improvvisazione che a me personalmente non piace, perché credo che non renda il giusto servizio né al lettore né al giornale, ma soltanto all’editore o all’autore in questione».

Nelle sue opere lei affronta temi come la memoria e l’oblio, l’infanzia violata e la difficoltà di crescere, la famiglia e i rapporti generazionali, l’emigrazione, lo spaesamento, i rapporti Nord-Sud. Si può dire che il fil rouge sia rappresentato dal tema del distacco e dalle difficoltà che ne conseguono?

«Sì, sono d’accordo. E si può dire anche che si tratta di un distacco sia sul piano geografico, quindi la nostalgia per un luogo abbandonato, ma anche per un tempo ormai dolorosamente passato. Io non credo che la nostalgia sia un sentimento banale, come spesso si fa credere per un facile retaggio romantico. La nostalgia è un sentimento forte, durissimo e, tra l’altro, anche molto produttivo, una specie di motore di critica rispetto al mondo presente: è un sentimento che spesso, guardando a ciò che si è perso del passato, proietta, crea, disegna speranze e progetti per il futuro. Un famoso storico della cultura e critico svizzero francese, Jean Starobinski, ha studiato la malinconia e la nostalgia dimostrando proprio questo: cioè come si tratti di sentimenti tipici della modernità, anzi di sentimenti tutt’altro che regressivi che producono modernità, cioè che permettono, guardando al passato, di immaginare un futuro migliore, fondato naturalmente su certi valori che il presente vorrebbe ignorare. L’umanesimo è stato, in fondo, una grande epoca di nostalgia della classicità: oggi invece chi non accetta il presente è vissuto come un reazionario “nostalgico”, come se vivessimo nel migliore dei mondi possibili. Per essere moderni bisogna accogliere incondizionatamente il proprio tempo, senza fare resistenza… Ma non è così. Il dolore del distacco produce spesso rabbia, insofferenza, tensione e dunque voglia di cambiamento. La nostalgia è, tra l’altro, il sentimento del nostro tempo globale e migrante, in cui ci sentiamo sempre stranieri tra stranieri: la condizione di estraneità è la nostra condizione.

Tornando ai miei libri: il dolore del distacco io l’ho vissuto attraverso mio padre, che ha lasciato la Sicilia per la Svizzera nel 1963, quando noi figli eravamo bambini, e che ha sofferto la distanza dalla propria terra. Anzi ci ha contagiati con questo dolore, che a volte è insopportabile e durissimo. Questo è stato il tema fondante dei miei libri. Il mio primo romanzo, Baci da non ripetere (Feltrinelli, Milano 1994, ndr), parla proprio di questo e poi il discorso viene declinato in modo sempre diverso: parte dalla nostra emigrazione e arriva fino alle grandi migrazioni di oggi con l’ultimo romanzo, I pesci devono nuotare (Rizzoli, Milano 2016, ndr), il cui protagonista è un ragazzo egiziano che ha attraversato il Mediterraneo per venire a vivere in Italia. Una storia vera a lieto fine, dopo le burrasche, le tragedie e le paure. Una storia di integrazione faticosa ma riuscita, che passa attraverso la forza salvifica della lingua».

La raccolta di testimonianze è un tratto in comune tra letteratura e giornalismo. Che rapporto c’è tra letteratura e giornalismo? È giusto che quest’ultimo venga influenzato dalla letteratura?

«Il rapporto che c’è tra letteratura e giornalismo, per come lo vedo io, è un rapporto solo fino a un certo punto di feconda mescolanza: bisogna avere la consapevolezza dei rispettivi confini. Mi spiego meglio: io ho fatto diversi libri, come ad esempio La catastròfa, oppure Ogni altra vita, oppure Giallo d’Avola (Sellerio, Palermo 2013, ndr), che partivano da premesse giornalistiche. La mia sensibilità all’ascolto e all’osservazione delle cose proveniva in buona parte dal mestiere di giornalista, anche quando già nelle intenzioni mi proponevo di realizzare qualcosa di diverso dal servizio per il giornale. Voglio dire che questo mestiere, che io ho esercitato per tanti anni, mi è servito moltissimo anche per costruire un’architettura di tipo letterario. La raccolta dei documenti e delle testimonianze è simile a quella che potrebbe fare un giornalista, ma da lì in poi, nell’atto di scrivere, le cose divergono totalmente: perché scrivere per un giornale è quasi una camicia di forza necessaria e indispensabile, è una forma di rispetto del lettore. Il lettore per il giornalista deve essere sempre presente e il giornalista deve adeguarsi a quel tipo di codice, magari con piccole infrazioni e piccole variazioni, di tipo soprattutto espressivo, che può permettersi, ma sostanzialmente deve accettare il codice della chiarezza, della fedeltà e della comunicazione.

Lo scrittore, invece, gode di una completa libertà, può anche non tener conto del suo lettore, può concedersi (naturalmente a sue spese) il massimo dell’oscurità, ipotizzando che trovi un editore disposto a pubblicarlo. Inoltre, può anche permettersi di tradire le cose viste e le cose sentite, può lavorare di invenzione e di immaginazione su frammenti di realtà: posso stravolgerla, capovolgerla, sfregiarla, correggerla, adattarla a contesti diversi… Da una parte, nel giornalismo, c’è l’esigenza deontologica irrinunciabile di fedeltà e di chiarezza; dall’altra parte, in letteratura, c’è una necessità di empatia rispetto ai tuoi personaggi, che però possono non essere (del tutto) personaggi reali, ma nascono dalla tua immaginazione o se ne nutrono, anche quando prendono spunto da elementi reali. Letteratura e giornalismo sono, insomma, da un certo punto in poi due modi opposti, che non hanno nulla a che fare, hanno proprio solo l’alfabeto in comune, neanche direi la grammatica, ed è bene così, secondo me. Tra l’altro, quando un giornalista scrive un articolo di cronaca da scrittore spesso il risultato è veramente un disastro. Ci vuole una misura e la consapevolezza ferrea di quello che si sta facendo, un controllo dei propri mezzi, dei propri argomenti, del proprio ruolo».

I mezzi di comunicazione digitale e i social media rappresentano un’opportunità o una minaccia per la letteratura?

«Secondo me né un’opportunità né una minaccia. Direi né l’una né l’altra per quanto riguarda la letteratura nella sua essenza. Sono una minaccia per quanto riguarda invece la trasmissione della letteratura, ma anche qualche volta un’opportunità, nel senso che secondo me questa orizzontalità propria di internet fa sì che trionfi più la quantità che la qualità. Questo passaparola secondo me fintamente democratico rischia di compromettere il senso vero di quello che è la letteratura. Il massimo della democrazia è anche il massimo della non democrazia. Gadda è un grandissimo scrittore, è molto elitario, però resta un grandissimo, anche se non è “democratico” sul piano della possibilità di essere letto e capito: sarebbe democratico se la democrazia fosse in grado di offrire a tutti un livello di cultura capace di comprenderlo e di apprezzarlo. La letteratura deve fare i conti con questo paradosso, mentre il veicolo di internet naturalmente privilegia la medietà dei primi in classifica. Si è imposta la dittatura della mediocrità: di recente ho letto Ligabue e mi chiedo come sia possibile che questo libro di racconti insignificanti e mal scritti possa per prima cosa uscire da Einaudi; e per seconda cosa attrarre tante persone: le assicuro che si tratta di racconti senza alcuna qualità letteraria. Per caso, l’altro giorno mi sono imbattuto su Ibs nei giudizi dei lettori sulla scrittrice rosa inglese Jojo Moyes: trionfavano i superlativi e il voto medio dei lettori era quasi pieno (4,8 su 5). Sono poi andato a vedere i voti a Madame Bovary: c’era solo un timido 4,5 firmato da una certa Antonella che raccontava di aver cominciato a leggere Flaubert con sospetto temendo che fosse pesante, ma poi si è ricreduta. Ho sfogliato un libro della Moyes: prolisso, noioso, insopportabilmente finto… Apri invece una pagina a caso di Flaubert e ti sembra un miracolo di equilibrio e di forza. La letteratura deve fare i conti con tutto questo e soprattutto deve essere una resistenza, una forza contraria e opposta al mainstream della banalità».