“Quando scopri la nobiltà del tuo nemico, non può più essere un tuo nemico. Non può proprio più esserlo.” Due padri, due storie. Due figlie, due sgabelli e due microfoni. Due voci, forti e spezzate. Una luce, un palco e un dialogo. Rami e Bassam, Bassam e Rami. Un passo e poi il secondo. È tra il primo e il secondo però, che passa un abisso. È così facile fare il primo, così difficile ripeterlo. Impensabile fare un percorso insieme. E allora fermi lì, sul palco, devono guardarsi negli occhi. Devono toccarsi e sentire di che pasta sono fatti. Salam/Shalom è la nemesi che si fa incontro, alla Fabbrica del Vapore di Milano. Il Festival dei Diritti Umani ospita Alessandro Lussiana e Massimo Somaglino, con la trasposizione teatrale del bestseller Apeirogon di Colum McCann, vincitore del premio Terzani nel 2022.
La mise teatrale è minimalista. L’unico fattore è la voce. Non servirebbero i microfoni. L’emozione di Bassam, Alessandro Lussiana, porta con sé il carico di una popolazione emarginata, occupata e oppressa. L’occupazione non ha lasciato nessuno spiraglio alla comprensione umana. Ed è così che ci si può riconoscere solo nel dolore. Il primo punto di contatto passa dall’esperienza comune, la più nefasta tra tutte. La perdita di un figlio. “Ci sono delle coordinate universali che ci accomunano al di là dell’appartenenza etnica o religiosa. È sempre difficile andare al di là della superficie. Ci si ferma alle diversità. È più facile, invece, innescare il conflitto in quanto è la parte più viscerale dell’essere umano.”
La figlia di Rami da grande voleva diventare ingegnere. “Chissà che bei ponti avrebbe potuto costruire”. La lezione dei più giovani fa da apripista all’accettazione dei genitori. La visione della realtà è polarizzata e di parte. Bisognerebbe cercare di avvicinare i due estremi. “Alla base degli schieramenti c’è la menzogna. È vero, viviamo in un mondo molto più informato, ma l’informazione spesso è propagandistica.” Per Massimo Somaglino non c’è via d’uscita se non il dialogo. L’illusione di conoscere può portare ad un effetto controproducente. E comunque si parla sempre di guerra, la pace non fa notizia. Si arriva quindi a pensare che l’unica soluzione agli scontri, siano altri scontri. “Nonostante ci sia più consapevolezza, non si parla mai di pace. Non si possono estirpare i pregiudizi se non viene mai menzionata la pace.”
Lo scontro è culturale e ideologico. Quando gli adepti di due culture apparentemente opposte si incontrano, può nascere il dialogo e l’empatia. Si iniziano a vedere non solo le divergenze, ma anche i punti di contatto. Decade quindi il desiderio di vendetta. E si innesta il processo di umanizzazione del nemico. L’esigenza di buttare fuori le tossine del rifiuto e della rabbia crea un climax. Al culmine, i due protagonisti si distendono e iniziano a considerarsi. “Dopo i fatti del 7 ottobre, c’è una diversa ricezione del pubblico, lo si capisce dai singhiozzi. A volte anche noi prendiamo delle pause. Mettere in scena qualcosa di estremamente attuale è ciò che, come attore, vorresti fare sempre. Perché vibra di più.”
Due voci intense, corpose, intrise di umanità e dolore. Quando si condivide però, il peso si può dimezzare. Ed è lì che due monologhi diventano una voce unica.