Nel cuore di una Milano caotica, brulicante di viaggiatori e abitanti intenti a godersi le prime giornate di una primavera che stentava ad arrivare, il tempo sembra essersi fermato alla Cineteca Arlecchino. In una traversa del grande viale che collega Piazza San Babila all’imponente Duomo della città, dal 3 fino al 12 maggio in Via San Pietro All’Orto, si susseguono in proiezione film, medio e cortometraggi in occasione della 33esima edizione del Festival del Cinema d’Africa, d’Asia e America Latina.

Sulla locandina del festival dal viola imperiale, figurano tre zebre e un titolo breve, incisivo: “Three is perfection”. Tre come il numero dei continenti rappresentati, tre come il numero perfetto che invita all’armonia e al rispetto della diversità. In un momento storico come quello attuale, dilaniato dai conflitti, dalla violenza e da un razzismo sistemico che come un veleno infettano le menti di coloro che osservano con passività ciò che accade, le proposte presentate affrontano temi di grande rilevanza. Dal mancato riconoscimento dei diritti fondamentali di cui ciascun individuo dovrebbe godere, al disagio esistenziale che le nuove generazioni – sempre più cosmopolite e indipendenti – stanno affrontando in relazione ai valori culturali e religiosi trasmessi dalle loro famiglie. Valori che si scontrano sempre più frequentemente con quelli di una società che ogni giorno diventa più globalizzata e individualista.

Nella grande sala sotterranea della cineteca, si susseguono sabato pomeriggio quattro cortometraggi. Senza interruzioni. Il primo, intitolato “Boussa” diretto da Azedine Kasri, regista franco-algerino, inizia con una dedica che racchiude l’essenza dell’intera pellicola : “a tutte le coppie che rischiano per un bacio in pubblico”.  Il cortometraggio racconta di un profondo disagio vissuto da Meriem e Reda, due giovani fidanzati algerini che, non potendosi permettere un matrimonio – come la cultura algerina richiede – non hanno il diritto di baciarsi pubblicamente.Kasri conduce lo spettatore ad una riflessione profonda ed esistenziale e lo spinge a domandarsi cosa voglia dire non potersi avvicinare alla persona amata quando e dove si vuole.

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Il secondo, intitolato “Muna” e diretto da Warda Mohamed regista di organi somale, porta sul grande schermo la storia di un’adolescente di seconda generazione appassionata di musica hip hop, il cui desiderio è andare in gita scolastica con i suoi compagni. All’inizio del cortometraggio accade però qualcosa di inaspettato. Sua madre, una donna religiosa e rispettosa dei valori culturali islamici, riceve una telefonata dalla Somalia che la informa della morte di suo padre. Pur non avendolo mai conosciuto, mentre aiuta sua madre con i preparativi del funerale che sarebbe dovuto essere celebrato anche in Inghilterra come forma di vicinanza alla famiglia in Somalia, Muna entra in uno stato di profonda angoscia e tristezza. Pur non avendo mai conosciuto suo nonno,attraverso gli occhi di una giovane ragazza in bilico tra due mondi che riconosce a stenti, la regista affronta uno dei temi più rilevanti del periodo storico in cui viviamo, dove i flussi migratori e le dinamiche ad essi legati rappresentano il fulcro del disagio di molti giovani che sentono di appartenere a più culture ma che in ragione della diversità che li caratterizzano, non sempre vengono compresi.

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Il terzo, ambientato in Kenya e co-diretto da Tevin Kimathi Omwanza e Millan Tarus, attraverso l’immaginazione infantile del protagonista, affronta un tema delicato, quello delle lingue coloniali.Per secoli, uno dei principali strumenti utilizzati per il controllo delle popolazioni indigene, in Africa, così come in Sud America, è stato il linguaggio. Non sorprende infatti che in quasi tutti gli stati d’africa, le lingue ufficiali ancora oggi, siano le lingue coloniali: francese, inglese, tedesco, olandese. Nel cortometraggio intitolato “Stero”, il piccolo Bruce non sopporta il sistema educativo in vigore nella sua scuola dove è permesso parlare solo inglese. Tutti gli studenti parlano inglese e chi non si adegua viene punito. Con un cuore da guerriero e un immaginario sensei al suo fianco, decide di sfidare le ingiuste regole trasformandosi in Stero, un piccolo eroe che onora il suo vero sé e il suo spirito ribelle.

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Il chiusura, è la regista senegalese Awa Moctar Gueye a presentare il suo ultimo cortometraggio. Autobiografico e intenso, “Dusk” racconta l’adolescenza di Binta, una giovane ragazza coraggiosa che trascorre le sue giornate con alcuni suoi coetanei, i ragazzi di Netty Mbar. In città c’è un uomo di cui tutti parlano ma di cui nessuno conosce la storia, Pa Kong-Kong. Spesso lo si vede al mercato e porta sempre con se una strana borsa sulla schiena, i ragazzi sono spaventati da lui. «Nel cortometraggio volutamente non svelo cosa Pa Kong portava nella borsa perché io stessa l’ho scoperto solo alcuni anni fa quando è morto. La verità è che volevo che il senso del racconto fosse incentrato su un’altra questione. All’inizio, Binta, – cioè io – viene eletta leader del gruppo dei ragazzi di Netty Mbar perché pesca la biglia bianca – che era stata contrassegnata come la vincente – ma i maschietti si ribellano alla scelta del destino e sfidano Binta a dimostrare il suo coraggio. Gli attori del corto sono ragazzi che vivono a Netty Mbar, molti di loro sono miei nipoti quindi è stato un gioco fare le riprese.Quando però ho domandato loro se nella vita reale avessero lasciato a Binta il comando, solo uno mi ha risposto di si. Anche se in minima parte, questo dimostra quanto ancora oggi la società senegalese sia profondamente patriarcale ed è importante affrontare certi temi». Quando le è stato domandato a cosa stesse lavorando negli ultimi mesi, ha risposto dicendo che il prossimo film per lei si sta rivelando una vera sfida perché il tema – la circoncisione maschile – è molto difficile da raccontare, soprattutto per una donna a cui non è consentito visionare la pratica.

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