Una scarpa da ginnastica, un biberon, un astuccio decorato con dei piccoli panda. Resti di oggetti di bambino che si mescolano con i rottami dell’imbarcazione naufragata. Nelle acque di Steccato di Cutro, in Calabria, galleggiano i residui di centottanta vite migranti, frantumate dalle onde e dall’inefficienza di soccorsi arrivati troppo tardi. Centottanta cittadini di Paesi diversi – iracheni, afghani, iraniani, siriani –; centottanta sconosciuti l’uno per l’altro, custodi soltanto della propria storia e delle proprie ragioni di viaggio. Centottanta destini che su quella barca, unico simbolo di una speranza condivisa, si sono intrecciati e spezzati.

Uno dei primi ad accorrere, in quel cimitero a cielo aperto, è stato don Rosario Morrone, parroco di Botricello (CZ). «Sono arrivato dopo la messa delle 8 e mezza. Mi è stato detto che c’era stato un naufragio sulla costa del comune limitrofo ma che due cadaveri erano stati trovati anche sulla spiaggia della mia parrocchia – le parole di Don Rosario cercano di restituire lo scenario della catastrofe –. C’erano i carabinieri e le forze dell’ordine, la protezione civile, il corpo di volontariato: stavano rastrellando tutta la spiaggia per cercare i cadaveri».

La spiaggia di Steccato di Cutro è un cimitero a cielo aperto, disseminato di oggetti e resti dell’imbarcazione naufragata: il lascito di centottanta vite spezzate. «Sento il loro grido disperato ogni notte», racconta don Rosario Morrone, testimone del naufragio.

«Poi, in un angolo appartato, silenzioso, c’erano questi ventisette morti, tra cui una bambina di nove anni. Erano tutti imbustati in grosse sacche bianche. Mi sono avvicinato e, solo io con loro, chinando il capo in un gesto quasi di scuse, ho pregato».

«In quel momento, quelle persone morte, le ho sentite urlare: chiedevano aiuto, compassione, vicinanza. Chiedevano il gesto di un braccio più forte che muove verso uno più debole». È una narrazione difficile da sostenere, quella di Don Rosario. È un racconto che non vorrebbe fare: non ama rilasciare interviste, parlare con la stampa, di solito crede nell’aiuto silenzioso più che alle parole urlate. Ma crede anche che ci siano situazioni di fronte alle quali non si possa tacere e parlare diventi necessario. «Mi sono detto che, se adesso ho la possibilità di dare voce a questi morti, lo devo fare. Non possiamo stare quieti o rassegnati di fronte a tragedie simili. E, soprattutto, non possiamo arrivare dopo la morte, dobbiamo arrivare prima».

L’appello di don Rosario è ad un’umanità che sa farsi ricchezza anche nella povertà: «Questo deve rimanere il fondamento di tutto: religione, società, politica. Una signora di Botricello ha aperto la cappella di famiglia alle salme: accogliere nella propria casa uno straniero è generosità».

Ma sulla spiaggia di Cutro a regnare non è solo la morte: c’è l’umanità. Quella dei cittadini accorsi in aiuto, quella dei volontari, quella delle forze di soccorso, quella dei sopravvissuti. Molti dei migranti sono stati trasportati in ospedale e sottoposti alle cure dei medici. Altri sono stati accolti al Cara di Sant’Anna, il Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo di Isola Capo Rizzuto: lì sono stati lavati e nutriti. «Ho visto gente piangere, mentre si raccoglievano i morti. Ho visto persone abbracciarsi. C’è stata una signora che ha lavato il volto di una bambina. Sono scene che straziano il cuore – don Rosario descrive un’umanità che sa farsi ricchezza, anche nella povertà –. Sono stato commosso da alcuni miei compaesani: molti mi hanno chiamato, volevano dare aiuto. Una signora ha aperto la cappella della sua famiglia, per accogliere alcune salme. Questa è generosità: mettere nella propria casa uno straniero». «Siamo dotati di intelligenza, abbiamo capacità di solidarietà. Siamo persone con un cuore di carne, che pulsa e vive e sente. Scorre sangue nelle nostre vene. L’umanità deve rimanere il fondamento di tutto: della religione, della società, della politica».

L’umanità è un valore che il parroco calabrese ha imparato dai suoi diciotto figli stranieri che dal 1998 gli sono stati dati in affidamento e di cui oggi è padre e nonno senza moglie. «Erano di un’altra religione, mentre io sono cattolico, ma l’umanità ci ha uniti». «Ogni sera, quando vado a dormire, sento quel grido di chi mi chiede disperato: “Cosa state facendo?”. Parlare di differenziazione di confini oggi è qualcosa di culturalmente vecchio: siamo tutti abitanti del mondo. E non è vero che gli immigrati sono un problema: gli immigrati sono una ricchezza».