Il racconto sulla migrazione si sintetizza in due dati riferiti dal Viminale: 26.927 e 6.543. Il primo dato si riferisce al numero di migranti approdati sulle coste italiane dal 1 gennaio al 27 marzo 2023; il secondo, alla stessa grandezza considerata, nello stesso arco di tempo, ma nell’anno precedente.[/mark] La maggior parte di loro – circa 12 mila – provengono dalle coste tunisine e approdano a Lampedusa, dove esiste un unico hotspot dedicato all’accoglienza. Ma se di prima accoglienza si tratta, possiamo definirla tale? «Quella offerta sull’isola non ci sentiamo di chiamarla accoglienza: non è in alcun modo dignitosa né rispettosa dei diritti delle persone che vi approdano –  Emma Conti è un’operatrice di Mediterranean Hope, un progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) molto attivo sull’isola siciliana –. Non è vera accoglienza perché non si prende cura delle persone e continua ad essere gestita sostituendo l’emergenza del controllo del confine a quella reale degli individui, dei pericoli che corrono durante la traversata, delle morti in mare, della violazione dei loro diritti una volta che arrivano in Italia».

Secondo l’operatrice di Mediterranean Hope Emma Conti, «quella offerta sull’isola di Lampedusa non può essere chiamata accoglienza: non è in alcun modo dignitosa né rispettosa dei diritti delle persone che vi approdano».

L’attività di assistenza di Mediterranean Hope occupa il lasso di tempo tra l’approdo delle persone sul molo Favarolo, dove vengono accompagnate dopo essere state soccorse dalla guardia di finanza o costiera, e il trasferimento nell’hotspot. Una volta trasportati nel centro di contrada Imbriacola, spesso a bordo di pullmini sovraffollati, ai migranti è infatti precluso il contatto con la società civile, che non ha accesso all’interno dell’hotspot. «Qui viene fatta l’identificazione prima del passaggio fuori da Lampedusa: molti di loro vengono trasferiti ad Agrigento, da cui poi entreranno nei vari percorsi d’accoglienza. Altri invece seguiranno un altro sentiero, che può portarli al rimpatrio o ai centri di detenzione pre-rimpatrio», prosegue Conti.

 

Alle condizioni degradanti dell’hotspot, costantemente sovraffollato, si somma poi l’inadeguatezza strutturale di un’isola che essendo priva di un ospedale non può garantire i servizi, il benessere e la sicurezza delle persone: «Nei mesi scorsi, all’interno della struttura sono morte tre persone e sulle dinamiche dell’accaduto ancora non c’è stata chiarezza», denuncia l’operatrice.

L’ex sindaco dell’isola, Salvatore Martello, ha sottolineato la necessità di incrementare il servizio che rende possibile l’iter del trasferimento dal punto di sbarco alla terraferma. Alla richiesta aderisce anche Mediterranean Hope, secondo cui «le persone non dovrebbero essere costrette ad arrivare a Lampedusa e trattenute oltre il tempo all’interno dell’hotspot: dovrebbero potersi muovere liberamente, avere canali di accesso sicuri e legali per poter raggiungere l’Europa, decidere di prendere un volo con un visto per arrivare laddove lo desiderino e non essere costretti a ricorrere ad una traversata in cui rischiano la vita».

Dallo scorso ottobre una porzione significativa degli arrivi proviene dalla Tunisia ed è alimentata non soltanto da coloro che, vivendo nel Paese, scappano dalla crisi economico-politica, ma anche da persone di origine subsahariana che vi transitano, partendo dal Camerun, dalla Sierra Leone, dalla Costa d’Avorio, dal Senegal. La rotta tunisina è la più numerosa negli ultimi mesi: «Si mettono in viaggio, trascorrono diversi periodi all’interno del continente muovendosi in modo diverso: c’è chi fa la traversata del deserto, chi invece riesce ad avere un visto per arrivare in Tunisia e poi partire», spiega Conti. Una partenza per un viaggio in classe zero e anche senza chiara destinazione. Sono infatti molteplici i fattori che contribuiscono ad accrescere il livello di rischio della traversata e il numero dei naufragi: dai sistemi di ricerca e soccorso in mare, «ostacolati in ogni modo per cercare di bloccare e criminalizzare le ong, ai corridoi umanitari che necessitano di essere ampliati, al tipo di imbarcazioni», così precarie come le esistenze sospese di chi sopra vi naviga.