Una carriera intera spesa negli old media, come lui stesso ama definire giornali, tv e radio, ma con un occhio sempre volto in avanti, al web e alle infinite possibilità d’interazione col pubblico che questa piattaforma offre. Gianni Riotta, giornalista de La Stampa e docente alla Princeton University, è oggi uno dei più importanti influencer di Twitter, soprattutto per quanto riguarda i new media e la politica estera, con una particolare attenzione alla situazione degli Stati Uniti, dove lavora dal 1988.

Riotta, perché ha privilegiato Twitter rispetto agli altri social?

Twitter fa parte di un percorso iniziato diversi anni fa all’interno dei new media e che non si è ancora conluso. Sono partito nel 1996, insieme ad Umberto Eco, con una rivista che si chiama Golem, un magazine online. Successivamente è nato un blog che si chiamava Pensieri e parole, pubblicato per molto tempo sul Corriere della Sera e La Stampa. Quando poi sono diventato direttore, mi sono concentrato sui siti dei giornali che dirigevo e sul sito del Tg1, dove abbiamo creato un programma che si chiamava Il Tg1 sei tu, un canale Youtube dove chiunque poteva caricare i propri video. Lo stesso abbiamo fatto al Sole-24Ore dove, con Daniele Bellasio, abbiamo lanciato una forte presenza del quotidiano online, visto che la sofferenza dei quotidiani deriva dal fatto che manca una forte cultura digitale. Oggi abbiamo avuto l’idea di partire da Twitter e poi evolvere verso altri social media. Abbiamo creato la startup Tycho Big Data, in cui abbiamo fatto l’analisi dei dati della campagna elettorale 2013 per La Stampa. La prossima evoluzione sarà una collaborazione con Linda Bernstein: faremo una pagina Facebook e un sito. Come vedi, una partenza dai grandi media per arrivare ai social media e a una startup.

Quindi Twitter non è né il punto di partenza, né un punto d’arrivo.

Non è né un punto d’arrivo né di partenza, ma è un pilastro importante. Io sono molto appassionato di Twitter. Quando faccio un editoriale per La Stampa che viene rilanciato online ho un’altro tipo di presenza, entro all’interno di una diversa e grandissima comunità come quella di Twitter e del web. Per chiarire il concetto della potenza dei social media faccio un esempio banale: nel 2009 un gruppo di ragazzi spiritosi creò un blog che si chiamava I 10 tweet migliori di Gianni Riotta per prendermi in giro.

Cosa non capivano?

Sia io che loro nel 2009 non avevamo idea di come usare Twitter e ancora oggi ci sono tantissime scuole di pensiero. Al contrario di loro, noi sapevamo di non sapere e quindi sperimentavamo le varie modalità di utilizzo del social media. Mandavamo un sacco di tweet e verificavamo quelli che diventavano favorited, quelli che venivano retweettati, quelli che portavano ad avere nuovi follower e quelli che venivano ignorati completamente. Era un sofisticato studio di dati. Né io né loro sapevamo come funzionasse, ma io ci provavo, loro pensavano di saperlo a priori. Noi eravamo più umili di loro e questo ha pagato, perché i follower di tutti questi ragazzi messi insieme, oggi, non arrivano nemmeno alla metà dei miei 130mila.

Secondo lei la causa di questo successo deriva solo dalla qualità dei tweet o anche dalla notorietà?

Mah, guarda. Io oggi sono un signore che insegna alla Princeton e che non ha ruoli pubblici di nessun tipo.

Però è stato ed è un famoso giornalista.

È ovvio che magari la gente mi ha seguito sui quotidiani e ha interesse a vedere come mi comporto sui social media. Con la vastità dell’offerta di Twitter puoi inizialmente attirare follower grazie al tuo nome, gli utenti ti danno una chance, ma se poi non sai come usare il mezzo ti defollowano dopo 10 minuti. La prova è che ci sono delle fonti anonime, mi viene in mente @insopportabile, che è seguitissimo ed è un signor nessuno.

Lei usa i social network solo per scopi professionali o anche per vetrina personale? 

No per me è un lavoro. Prima stavamo negli old media, oggi siamo nei social media. Se poi voglio parlare con gli amici, li chiamo per telefono.

Quante ore al giorno dedica ai social network?

Questa è una domanda da old media. Potrei rispondere 24, perché se calcoli il tempo effettivo che stai sui social media risulti approssimativo. Ad esempio, se durante una lezione un mio alunno fa un’osservazione interessante, io poi la condivido con i miei follower. Allora anche la lezione è tempo dedicato ai social media, ogni momento della giornata può esserlo.

Ritiene sia importante avere un’interazione con le persone che la seguono o la citano?

Assolutamente sì. La novità dei new media è l’interazione, è la sua caratteristica innovativa.

Lei ha lavorato per anni negli old media. Secondo lei, quanto hanno influito i social su carta stampata, radio, tv? 

Moltissimo ma non abbastanza. Nel senso che li hanno costretti a cambiare pelle, li hanno danneggiati dal punto di vista della diffusione, però i giornali non usano ancora abbastanza i social media. Esistono alcuni ottimi esempi in questo senso: il lavoro che Serena D’anna svolge al Corriere, o Marco Bardazzi a La Stampa, il fatto che Repubblica stia lavorando molto con l’Huffington Post. Ma ancora i giornali non sono entrati a fondo nei social media, devono farlo velocemente. Il direttore del sito e social media editor deve essere direttore del giornale. Per adesso hanno bravissimi giornalisti che si occupano di social media e di web, poi devono capovolgere la situazione: dare la pagina cartacea a buoni giornalisti e il direttore deve occuparsi dell’area digital.

Quindi lei crede che in futuro l’area digital dovrà diventare preponderante rispetto al cartaceo?

Se tu hai una fonte che si sta inaridendo e una che deve crescere, è ovvio che controlli con preoccupazione quella che si sta impoverendo, ma sei uno sciocco se non investi in quella che ti può garantire un futuro.

Cosa succede negli Stati Uniti? Quanto influiscono i social network sul giornalismo Usa?

I social media li hanno inventati tutti loro. È giusto che i giornalisti italiani abbiano un po’ di nazionalismo e in parte lo condivido, ma obiettivamente non c’è partita. Gli italiani sono intelligenti e supereranno anche questo scoglio, ma il nostro problema è che dobbiamo inventare noi un social media.