La Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia si celebra dal 17 maggio 2004. Sono passati diciotto anni e il fatto che sia ancora così rilevante dimostra che c’è tanta strada da fare. Proprio qualche giorno fa i principali partiti di destra italiani si sono schierati contro la circolare del ministro dell’istruzione Bianchi che, per l’occasione, invitava gli insegnanti a sensibilizzare gli studenti sull’argomento. La realtà è che, per quanto qualcuno cerchi di nascondere la polvere sotto il tappeto, sono proprio gli adolescenti a mostrare l’apertura più evidente, a sentirsi in dovere e in diritto di vivere liberamente la propria sessualità. La testimonianza più recente riguarda proprio gli schermi, nello specifico quelli più piccoli dello streaming, con la serie Heartstopper. Il teen drama, adattamento dell’omonima graphic novel di Alice Oseman, i cui protagonisti sono due studenti di una scuola superiore inglese, è stato uno tra i più visti di Netflix a livello mondiale nell’ultimo mese, diventando tra i trend più popolari su Twitter proprio tra i più giovani.

Il cinema ha raccontato più volte storie legate al tema, dal cult I segreti di Brokeback Mountain, fino ai più recenti Laurence Anyways di Xavier Dolan e Chiamami col tuo nome del nostro Luca Guadagnino. Ecco le nostre scelte, buona visione!

Philadelphia, Jonathan Demme (1993)

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Or will we leave each other alone like this / On the streets of Philadelphia. Nei versi di Bruce Springsteen c’è tutta la contraddittoria solitudine che pervade le strade, affollate, di una città come Philadelphia. Ne è specchio la vicenda di Andrew Beckett, brillante avvocato costretto a passare da perfetto padrone di casa ad ospite indesiderato da quella stessa società, pronta ad allontanarlo in quanto omosessuale.

Demme porta sul grande schermo la tragedia dell’Aids, il male oscuro degli anni Novanta, l’innominato dalle origine e dalle cure ignote, il diverso per eccellenza e proprio per questo spiegato da un’altra diversità: l’omosessualità. Proprio quei malati che venivano relegati ai margini della società diventano i protagonisti di questo film, premiato con l’Oscar per la colonna sonora di Springsteen e per l’interpretazione di Tom Hanks.

Alla patina marcia che si forma sulla parte superficiale della società, il film risponde con il racconto, dal di dentro, della vita di un omosessuale, malato di Aids. Dallo spioncino della sala, lo spettatore entra nella vita di un “diverso” come Andy, e la scopre inaspettatamente normale. La vera protagonista del film è la riscoperta della dignità che ogni persona ha, a prescindere da aspetto fisico, orientamento sessuale o religioso. Restano le premure con cui il compagno di Andy, interpretato da Antonio Banderas, si prende cura dell’uomo, le feste in maschera, le risate con la famiglia e con gli amici.

Lo spettatore affonda nella patina dei ben pensanti, ride alle battute omofobe dell’avvocato Joe Miller (Denzel Washington), prova la sua stessa paura per la diversità e piano piano la smantella con la conoscenza di Andy come persona, fino a sposarne la causa legale e umana.

Alla fine rimaniamo noi, davanti ai nostri pregiudizi, pronti a riconoscerli come tali e a sostituirli con uno sguardo che vada all’essenza della persona.

Eleonora Bufoli

Boys Don’t Cry, Kimberly Peirce (1999)

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Boys Don’t Cry è un film difficile da digerire, Roger Ebert lo definì a suo tempo un “Romeo e Giulietta” ambientato in Nebraska. Siamo a Falls City per la precisione, Brandon Teena è un giovane ventenne nato biologicamente femmina, Teena Brandon, che vorrebbe intraprendere un intervento chirurgico per cambiare sesso. Brandon si veste da ragazzo e non rivela a nessuno il suo essere transgender. Nella cittadina statunitense conosce Lana Tisdel con la quale inizia una relazione amorosa finché, a seguito di un arresto, non viene scoperta la sua reale identità. Da questo momento in poi, siamo nel pieno della seconda metà del film, tenere lo sguardo sullo schermo diventa complicato: la sceneggiatura e la regia di Kimberly Peirce raccontano le vicende drammatiche finali senza fronzoli. Non c’è enfasi, né sentimentalismo, ma solo gli eventi che procedono senza sosta e che lo spettatore vorrebbe prendessero una direzione diversa.

Una strada alternativa non può però essere percorsa, perché Brandon Teena è stato stuprato e poi ucciso per davvero nel 1993, da quelli che fino a qualche tempo prima lui e Lana consideravano amici. Una storia di transfobia che sconvolse l’America del tempo, per via anche della superficialità delle indagini degli agenti della contea a seguito della denuncia e dopo aver persino ascoltato la testimonianza da parte dello stesso Brandon. Nel 1997 l’aspirante regista Kimberly Pierce ottenne un finanziamento dalla New York Foundation for the Arts, oltre che dal Sundance Institute’s Filmmakers, per trarre un film dal suo cortometraggio sulla vicenda di cronaca. Boys Don’t Cry uscì nelle sale nel 1999, dopo che un anno prima un altro tremendo omicidio omofobico, quello di Matthew Shepard, aveva di nuovo segnato le coscienze dei cittadini statunitensi.

Se il film è un pugno nello stomaco è merito anche delle prove attoriali superbe di Hilary Swank nei panni di Brandon, ruolo che le valse il suo primo premio Oscar, e di Chloë Sevigny in quelli di Lana. Degna di nota anche la colonna sonora piena zeppa di canzoni simbolo degli anni Ottanta e Novanta, compresa quella dei The Cure che dà il titolo al film. Boys Don’t Cry è una prova di forza per lo spettatore, una storia che richiede una strenua resistenza allo sconvolgimento e alla rabbia che sale man mano che la vicenda segue il suo tragico corso.

Samuele Valori

Dallas Buyers Club, Jean-Marc Vallée (2013)

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«Benvenuto al Dallas Buyers Club» urla Ron Woodroof interpretato da Matthew McConaughey all’avvocato che gli aveva appena affittato l’ufficio. Un club composto da diversi: gay, drogati, prostitute, persone fuori dall’ordinario a cui lo stigma dell’AIDS ha definitivamente dato l’opportunità ai giudicanti di puntargli il dito contro. Ron Woodroof è uno di quelli: omofobo, alcolizzato, amante delle belle donne, rozzo. Quando il dottor Sevard gli diagnostica l’AIDS dandogli 30 giorni di vita il castello di carte che si era costruito crolla davanti ai suoi occhi. È costretto a fare un viaggio in quel mondo che ha sempre odiato e forse anche dentro se stesso. Il sistema immunitario è la metaforsa di una vita passata a giudicare chi sta dall’altra parte, quando corroso dall’AIDS esso crolla, ecco che Ron è pronto a vivere la sua vita in modo diverso. Pronto ad aiutare gli altri. Senza più barriere.
Il film fu candidato a sei premi Oscar nel 2014. Vinse in tre categorie, incluse miglior attore protagonista e non protagonista, rispettivamente a Matthew McConaughey e Jared Leto. Il regista Jean-Marc Vallée, scomparso lo scorso 26 dicembre, fu candidato anche come miglior montatore. E in effetti il film è un taglia e cuci perfetto fatto di contraccolpi e sorrisi obliqui dove si riflette spassionatamente su una grande piaga degli anni ’90, forse troppo velocemente dimenticata.

Lorenzo Buonarosa