Esistono luoghi dove il tempo sembra essersi fermato. Ci sono posti in cui gli anni trascorrono lenti, nonostante tutto intorno vada veloce. È il caso di Vico dei Lavandai, una minuscola strada affacciata sull’Alzaia Naviglio Grande dove un tempo le donne milanesi portavano i panni a lavare. Oggi è conosciuta come la via degli artisti, perché in Vico dei Lavandai ci sono solo atelier di pittori.

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Fuori la vita corre a passo sostenuto. I Navigli sono sede privilegiata della movida meneghina e al tramonto si riempono di giovani in cerca di divertimento. Le insegne si susseguono freneticamente, i pub si alternano a paninerie e disco club. Basta non passare di lì per un paio di mesi per trovarvi, al proprio ritorno, qualcosa di nuovo. Sui Navigli tutto cambia continuamente, tranne Vico dei Lavandai.Sui Navigli tutto cambia continuamente, tranne Vico dei Lavandai.

Lì il cemento non è ancora arrivato: accanto al selciato giacciono le stesse pietre su cui passeggiavano gli uomini d’inizio ‘900. All’angolo è ancora possibile osservare l’antica centrifuga del canale di scolo. Vico dei Lavandai è uno degli ultimi baluardi di storia in una città in continua evoluzione. Eppure, sono in pochi a conoscerlo. Quando ho raccontato la sua storia ai giovani intenti a sorseggiare un drink, giusto a pochi metri di distanza, la reazione più frequente è stata la sorpresa. «Una via abitata da artisti? Pensavo fosse lo studio di un designer» risponde Antonella. «Ci sono passato per caso, qualche volta – dice Carlo dal tavolo accanto – ma quel vicolo non sapevo neppure come si chiamasse». I milanesi, insomma, sembrano ignorare l’esistenza della viuzza. Mentre i turisti ci finiscono dentro per i bei colori dei palazzi e perché, secondo Amie arrivata dalla Cina, «è tutto così instagrammabile».

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Eppure Vico dei Lavandai continua a esistere, oggi come un secolo fa, ancora intatto. Il merito è del misterioso proprietario del palazzo – impossibile da rintracciare, ostinato nel non cedere i propri appartamenti a nessuno che non porti una tavolozza con sé. Ed è proprio con questi affittuari che vivono dietro a una tela che ho parlato, iniziando dall’ultimo arrivato: il pittore Mario Mori.

Mario in Vico dei Lavandai ci è arrivato da appena tre mesi. Qui si sente in vacanza, «alcuni prendono la casa sul lago, io ho preferito un atelier sul naviglio». Il civico n.5 non è il suo studio principale, un posto dove lavorare lo ha già, «se sono venuto è per l’atmosfera. Intorno ho solo amici che dipingono, come me. In questo posto si è abbracciati dalla creatività, l’arte te la senti addosso».«In questo posto si è abbracciati dalla creatività, l’arte te la senti addosso». Mario Mori, pittore Forse il suo è il punto di vista entusiasta di un neofita, eppure Mario Mori non crede nella crisi. «La gente da qua ci passa – dice – magari non compra, ma vendere dipinti al giorno d’oggi è difficile ovunque. Non esiste fine settimana, però, in cui non passi del tempo a chiaccherare con qualcuno che passa di qui perché, in un modo o nell’altro, è interessato all’arte».

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Di tutt’altra opinione, invece, è Elsa Bianchi Cassinone, che sui Navigli ci lavora da più di vent’anni. «Appena arrivata sembrava di vivere in una favola, in Alzaia c’erano solo artigiani e artisti» afferma Elsa con sguardo nostalgico. Mentre gli occhi le si incupiscono quando il discorso si sposta al presente, «per noi pittori la vita è sempre più difficile. I guai sono arrivati assieme a pub e ristoranti, disposti a pagare affitti molto più alti di quelli che possiamo permetterci noi». Eppure il suo atelier il mese prossimo compie 22 anni, «ma è solo grazie al proprietario del condominio». E il pubblico invece? Le chiedo se abbia mai ricevuto aiuti economici dal Comune. «Palazzo Marino si vende al migliore offerente – mi risponde con voce stanca – ha liberalizzato tutto. Per anni, ogni volta che una bottega veniva chiusa per far spazio a un all you can eat, noi abbiamo inviato una lettera di protesta e ogni volta ci è stato risposto che non sarebbe successo più. Invece è successo di nuovo, e continua a succedere tutt’ora». L’atmosfera non si fa più rilassata quando iniziamo a parlare di turisti e avventori. «Mi tengo lontana dalla vita notturna dei Navigli – mi confida Elsa –, arte e movida non sono mondi in grado di convivere». Oggi ne è convinta, seppure in passato abbia provato a far arrivare i giovani di Porta Ticinese dentro Vico dei Lavandai. Il tentativo fallì, «aprire gli studi alla notte non è servito a nulla. La gente arrivava, ma non era interessata a noi. Ho smesso di tenere aperto fino a tardi dopo esser stata costretta a ripulire il mio cortile dal vomito degli ubriachi».

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La pensa allo stesso mondo Pierangelo Bernini, arrivato nel 2010. «Navigli e Vico sono due mondi separati» è la prima cosa che mi dice. Anche da parte sua, in realtà, ci sono stati tentativi di far convergere questi due universi paralleli: «d’estate esponiamo le nostre opere fuori, ma la gente neanche ci vede. La maggiorparte delle persone pensa solo a quale locale scegliere per l’aperitivo». Nonostante tutto, però, Pierangelo è felice di trovarsi qui, «d’altronde se l’arte è in crisi non è mica colpa della zona, vendere è difficile dappertutto. Perlomeno ho la possibilità di dipingere avvolto da un’atmosfera romantica, questo è un posto unico a Milano».

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L’ultimo con cui ho chiaccherato è stato Luigi, che non ha mi voluto rivelare il suo cognome né l’alterego con cui firma le proprie opere. «Non mi interessa farmi pubblicità» afferma. Neppure la questione movida sembra essere un problema per lui, «il mondo dei Navigli, semplicemente, lo lascio fuori dalla finestra. Questo è il mio rifugio segreto, non mi importa cosa succede attorno». In Vico dei Lavandai Luigi ci è arrivato perché «era qui che tutti i grandi maestri da cui fui ispirato ai tempi dell’Accademia di Brera avevano l’atelier». Gli insegnanti non ci sono più, ma di gente da cui trarre ispirazione c’è ne ancora tanta. «Oltre al silenzio, ciò che amo dello stare qui è l’essere parte dell’Associazione del Naviglio Grande». Anche in questo caso, però, non è il commercio a guidare le sue scelte, «l’Associazione, per me, vuol dire amici. Non è vendere il fine. È un simposio d’artisti che, spesso, si trasforma in nulla più che un gruppo di amici che trascorrono il tempo a chiaccherare e giocare a carte».

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