Drappi neri sventolano sopra i tetti di Falluja e Ramadi, in Iraq. Ma non in segno di lutto per i morti di Baghdad: sono le bandiere dell’Isil, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che nel giro di pochi giorni ha preso il controllo di diversi quartieri delle due città situate a una manciata di kilometri a ovest della capitale.
I disordini sono scoppiati il 30 dicembre quando le forze dell’ordine sono intervenute a Ramadi per disperdere un sit-in di protesta di attivisti sunniti contro l’esecutivo sciita del premier Nuri al-Maliki. Già dalla fine del 2012 l’Iraq centro-occidentale era attraversato dalle proteste antigovernative della minoranza sunnita che si sente marginalizzata da Baghdad. La situazione è rapidamente sfuggita di mano: il 5 gennaio diversi attentati nella capitale hanno ucciso almeno venti persone, decine i feriti; intanto l’Isil, considerato la colonna irachena di Al-Qaeda, prendeva con le armi il controllo di Falluja e Ramadi e della strada che le collega a Baghdad. Simili livelli di violenza non si vedevano in Iraq dal 2007, anno in cui la rivalità fra le fazioni raggiunse il culmine.
Al momento la situazione è bloccata: nelle due città si combatte quartiere per quartiere, ma il governo non intende ancora far intervenire l’esercito. Una scelta di cautela, quella di Maliki. La posta in gioco infatti è altissima: a livello interno, le violenze di questi giorni acuiscono la tensione fra le due comunità religiose del Paese creando un serio pericolo di guerra civile; a livello regionale, i combattimenti rischiano di contagiare l’area e trascinarla in un più ampio conflitto sunnito-sciita. Senza contare che se Falluja e Ramadi vengono abbandonate al loro destino l’Isil potrebbe, e vorrebbe, porre le basi di un vero e proprio “Stato di Al-Qaeda” nel cuore del Medio Oriente: un vasto territorio a cavallo fra Iraq e Siria che comprenderebbe le province irachene a maggioranza sunnita, Anbar e Ninive, e quelle siriane settentrionali, dove è ormai scontro aperto fra l’Isil e i ribelli per il loro controllo.
La crisi irachena ha dei risvolti inaspettati. Gli Stati Uniti, spiega il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, garantiranno supporto materiale all’esercito iracheno per combattere gli estremisti. Anche l’Iran si è detto pronto a mettere a disposizione armi e mezzi per il medesimo scopo. Succede allora che, per una logica squisitamente geopolitica, “il nemico del mio nemico è mio amico”: Washington e Teheran si trovano uniti nel fronteggiare lo stesso pericolo e dichiarano un impegno comune, contrastare l’ascesa di Al-Qaeda nella regione.
Si tratta dell’ultimo, e forse decisivo, tassello nel processo di normalizzazione dei rapporti e cooperazione fra i due Paesi che è cominciato a inizio dicembre con gli accordi sul nucleare iraniano. Il Paese che fino a un anno fa vagheggiava la distruzione dello Stato di Israele oggi ambisce a essere riconosciuto come potenza regionale in grado di garantire la stabilità del Medio Oriente. Protagonisti della transizione sono il premier Hassan Rouhani e il ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif, che hanno abbandonato l’intransigenza di Ahmadinejad in favore di un vero progetto di politica estera.
Infatti Teheran possiede un’altra carta da giocare sullo scacchiere mediorientale: la Siria. L’Iran non compare nella rosa dei primi trenta Paesi invitati alla conferenza di pace che si svolgerà a Ginevra il 22 gennaio. Un’esclusione che punisce il supporto politico e materiale offerto ad Assad finora. Tuttavia il segretario di Stato Usa John Kerry apre uno spiraglio di cooperazione: l’Iran potrà partecipare alla conferenza anche se in una posizione non centrale e solo in maniera costruttiva. Ossia abbandonare l’ipotesi di un sostegno a oltranza ad Assad e creare le premesse politiche per la creazione di un esecutivo che integri esponenti dell’opposizione nella compagine governativa.
Per l’Iran si tratta di un banco di prova e di una carta da giocare: il premio potrebbe essere l’inizio di un’inedita cooperazione regionale con gli Stati Uniti nel mantenimento della stabilità del Medio Oriente e della lotta al terrorismo. La prospettiva non è gradita ai sauditi, più che mai decisi ad andare avanti da soli sulla strada dell’appoggio aperto ai ribelli, fiancheggiatori di Al-Qaeda compresi. Dietro la partita siriana e la conferenza di pace insomma si ripresenta sempre più marcato il confronto fra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita. Proprio il radicalizzarsi della posizione saudita nell’appoggio ai ribelli siriani a tutti i costi può alterare i rapporti internazionali nella regione e avvicinare Washington e Teheran. Per quest’ultima l’appuntamento del 22 gennaio è un’occasione da non sprecare.