L’opinione pubblica è di nuovo concentrata sul tema della riforma della giustizia. A riaccendere l’attenzione è stata la riunione di venerdì 3 maggio a Palazzo Chigi, in cui il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha illustrato il disegno di legge che presenterà entro le Europee alla presenza del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, del viceministro Paolo Sisto, del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano, dei sottosegretari al Ministero della Giustizia Ostellari e Delmastro, dei presidenti della Commissioni Giustizia di Camera e Senato, Ciro Maschio e Giulia Bongiorno, nonché dei responsabili Giustizia dei Partiti di centrodestra.

Il testo ufficiale della proposta non è ancora noto, per cui il dibattito ruota per lo più attorno a quanto è stato annunciato, che ha suscitato un confronto piuttosto acceso e divisivo tra politica e magistratura.

Uno dei punti più dibattuti riguarda la separazione delle carriere della magistratura: la riforma vorrebbe imporre l’impossibilità di passare dal ruolo di requirente a quello di giudicante, ossia di poter rivestire nel corso della propria vita sia il ruolo di pubblico ministero sia quello di giudice. Il paradosso è che sia i sostenitori di questa proposta sia coloro che la criticano si appellano per sostenere la propria tesi agli stessi valori: la terzietà e indipendenza del giudice. Da un lato, c’è chi ritiene che un magistrato può essere realmente privo di condizionamenti solo se mantiene per tutta la sua vita occupazionale lo stesso ruolo. Dall’altro, c’è chi afferma che la possibilità di assumere entrambi i ruoli non interferisce minimamente con il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, anche perché sono previste una serie di garanzie, come l’obbligo che le due funzioni non siano esercitate nel medesimo distretto giudiziario.Anzi, il fatto di aver assunto entrambe le vesti può divenire un valore aggiunto. «Essere stato sia giudice sia pubblico ministero è stato un arricchimento: passando dalla funzione giudicante alla requirente ho portato con me l’esperienza della decisione e la consapevolezza di quanto sia importante svolgere delle indagini corrette, assicurando le garanzie di tutti». Con queste parole il magistrato Francesco Menditto, già membro del Consiglio Superiore della Magistratura e ora procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli (RM), commenta la questione sulla base della sua esperienza personale.

Peraltro, occorre tener presente che allo stato attuale delle cose i passaggi di carriera sono davvero esigui, a differenza di quanto accadeva fino a una quindicina di anni fa, prima che intervenissero una serie di modifiche normative. Da ultimo, la riforma Cartabia del 2022 ha stabilito che i magistrati possano effettuare il passaggio di carriera una sola volta e nel corso dei primi nove anni dalla prima assegnazione delle funzioni, o in una serie di altri casi marginali.

Questa volta però, a differenza delle precedenti, la modifica sarebbe una riforma costituzionale, perché si tratterebbe di un intervento sull’assetto della magistratura come descritto nella nostra Carta fondamentale, che è collegato all’intera architettura dello Stato. «L’articolo 101 e seguenti della Costituzione prevedono che la magistratura sia autonoma e indipendente da ogni altro potere dello Stato e in questa costruzione l’indipendenza è collegata all’unità della giurisdizione e dunque al fatto che giudici e pubblici ministeri facciano parte della stessa carriera – osserva il procuratore Menditto -. Io sarei quindi molto cauto a ragionare su una riforma come questa, che potrebbe intaccare alle fondamenta i valori espressi nella Carta, anche perché la Costituzione è un testo che è stato pensato dai nostri costituenti dopo l’esperienza tragica del fascismo con lo scopo di costituire un’Italia democratica e fondata su valori comuni».

Nell’ottica di una scissione netta tra i due ruoli, si colloca poi l’ulteriore proposta avanzata dal governo: l’istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura, uno per la funzione requirente e uno per la funzione giudicante. Una misura che comporterebbe necessariamente una serie di riforme collaterali: l’istituzione di due concorsi differenti, di due carriere completamente distinte, di percorsi di formazione diversi. Conseguenze che non per tutti sono positive:«Avere un solo Consiglio Superiore della Magistratura, nonché un unico concorso e un percorso formativo comune, consente di avere valori fondanti condivisi e, soprattutto, assicurare l’indipendenza reale del pubblico ministero» spiega Menditto.

Sempre con riferimento al CSM, si era poi proposto di modificarne la composizione. Ora questo organo è composto dal Presidente della Repubblica, dal primo presidente, dal procuratore generale della Cassazione, e da altri 30 membri, di cui 20 sono “togati”, eletti da tutti i magistrati ordinari tra i membri della loro categoria, e 10 “laici”, scelti dal Parlamento in seduta comune tra professori universitari in materie giuridiche e avvocati che esercitino la professione da almeno cinque anni. La riforma avrebbe inteso modificarne la componente laica e stabilirne l’elezione da parte del governo, ma, alla luce delle ultime dichiarazioni dell’esecutivo, pare che questo progetto sia stato accantonato. «Chi sostiene che la separazione delle carriere potrebbe favorire l’indipendenza del giudice, senza intaccare quella del pubblico ministero, non fa i conti con i possibili sviluppi futuri di una scissione dei ruoli– osserva Menditto -.I pubblici ministeri potrebbero divenire sempre più vittime del carrierismo e, dato che le nomine dei vari uffici spettano al CSM, ciò potrebbe rendere più semplice un controllo della politica sull’attività di indagine». Sul punto, il magistrato ricorda un ulteriore aspetto peculiare del nostro Paese, che aumenta la criticità della questione: «In Italia al pubblico ministero spetta anche la direzione della polizia giudiziaria, che svolge le indagini, per cui se la politica riuscisse a condizionare l’operato del magistrato, potrebbe esercitare anche un’influenza indiretta sull’avvio e il prosieguo dell’attività investigativa».

Se tale previsione si realizzasse, si concretizzerebbe una situazione contraria al principio di separazione dei poteri e lesiva dei fondamenti di autonomia e indipendenza che dovrebbero invece caratterizzare la giurisdizione. Un pericolo che l’assetto pensato dai costituenti voleva in tutti i modi evitare: a stragrande maggioranza stabilirono che i due terzi del CSM dovesse essere eletto dagli stessi magistrati, considerato che si tratta dell’organo che decide le nomine, il trasferimento e i provvedimenti disciplinari. «In un sistema del genere, la magistratura perderebbe la sua autonomia e indipendenza nel giro di qualche anno e si piegherebbe alla politica» commenta Menditto.

Allo stesso modo, è stata altresì avanzata la proposta di affidare il controllo dell’attività giurisdizionale a un’Alta corte esterna al CSM, composta da membri togati e laici estratti a sorteggio da panieri prestabiliti: anche questo un punto che non è rimasto indenne da critiche. «Ritengo questa misura non condivisibile perché, pur se i procedimenti disciplinari sui magistrati sono un’attività pacificamente giurisdizionale, è opportuno che restino interni all’organo: proprio l’esperienza dei suoi componenti consente di giudicare meglio l’attività concreta dei giudici e dei pubblici ministeri» osserva il procuratore di Tivoli.

Un ultimo aspetto che è stato molto attenzionato nel dibattito pubblico riguarda la modifica del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, secondo cui il pubblico ministero deve attivarsi e dunque indagare per ogni notizia di reato che riceve, senza avere alcun margine di decisione in merito, e sotto il controllo di un giudice che vigili sulla prosecuzione o non prosecuzione dell’azione. Da quanto emerso, pare che il governo vorrebbe intervenire sul punto e inserire in Costituzione dei criteri di priorità, ossia delle regole che determinino la gerarchia secondo la quale il magistrato deve indagare sulle notizie di reato.«Sarebbe uno stravolgimento del nostro sistema, perché i nostri costituenti hanno deciso di inserire questo principio attraverso l’articolo 112 della Costituzione proprio per garantire la parità di trattamento dei cittadini ed evitare che fosse il pubblico ministero a scegliere secondo la sua discrezionalità quando procedere oppure no, a differenza di quanto avvenuto nel fascismo – osserva Menditto -. Si tratta di una particolarità del nostro ordinamento, pensata proprio per evitare che le decisioni dei requirenti potessero finire di nuovo nell’orbita dell’esecutivo, come già avvenuto in passato, anche perché nel nostro Paese la contesa politica è molto forte». È però vero anche che il legislatore attuale si è reso conto di quanto possa essere complicato trattare tutti i casi allo stesso modo, dato che comunque esiste un’importanza oggettiva dei procedimenti che impone delle velocità di azione diverse. Ma al riguardo occorre ricordare che già la riforma Cartabia è intervenuta sul punto e ha previsto due rimedi: da un lato che il Parlamento debba stabilire con legge dei criteri di priorità; dall’altro lato che le procure più importanti determinino delle regole proprie sul punto, da adottare attraverso modalità trasparenti, che passino dal Consiglio giudiziario e per la successiva approvazione del CSM, sino alla loro pubblicazione sul sito della procura. «Non appare ragionevole adottare un ulteriore intervento come quello proposto, che potrebbe solo minare l’autonomia e indipendenza del pubblico ministero – nota Menditto -. Il Parlamento, invece, ancora non è intervenuta con la legge per offrire indicazioni generali. Logica vorrebbe verificare la funzionalità del nuovo sistema adottato con la riforma Cartabia e, solo dopo un congruo periodo, valutare correttivi». Ed evidenzia anche un’ulteriore criticità tipica proprio del nostro Paese: «In Italia è il pubblico ministero a dirigere l’attività investigativa della polizia giudiziaria, a differenza che in altri Stati come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o alcuni Paesi dell’America Latina, dove è essa stessa a decidere come avviare e svolgere le indagini, per cui la responsabilità è sempre dell’organo giurisdizionale e non vi è alcun utilizzo politico degli inquirenti – spiega -. Una perdita di autonomia del pubblico ministero fa quindi venir meno anche questo controllo democratico sulla polizia giudiziaria, che è quella che opera attivamente “per strada”: è invece importante che il magistrato requirente che la dirige sia autonomo e indipendente».

Considerata l’eventualità che la riforma venga però approvata, è ovvio chiedersi se esistano rimedi esperibili contro norme che possano in qualche modo avere un effetto distorsivo sui fondamenti del nostro sistema. «Potrebbe intervenire la Corte costituzionale, dato che ha più volte chiarito come anche le leggi di riforma costituzionale hanno dei limiti da rispettare, ossia i principi fondamentali dello Stato democratico, e in alcune sentenze ha proprio affermato che anche l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero possono considerarsi tali – spiega il procuratore -. La stessa conclusione vale per il principio di obbligatorietà dell’azione penale che, secondo la corte costituzionale, rientra nei principi fondamentali della nostra Costituzione perchè, da un lato garantisce l’indipendenza del pubblico ministero e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Quindi, non è escluso che se la riforma intaccasse in modo significativo la Costituzione, la Consulta potrebbe censurarla per incostituzionalità».