Quando viaggi a bordo di una nave con un proiettile nel ginocchio per te il mare non è un luogo piacevole. Quando hai una ferita fresca o il corpo ricoperto di ustioni, eredità delle violenze subite nei centri di detenzione in Libia, tre giorni in più di navigazione possono fare la differenza. Quando nel Mediterraneo sei stato già respinto da una guardia costiera libica e riportato alla condizione di maltrattamento da cui hai cercato di fuggire, quando vi hai perso parenti e amici che come te hanno tentato la traversata, ma, a differenza tua, non ce l’hanno fatta, allora quel luogo diventa per te il posto in cui si muore. Uno spazio di sepoltura che rievoca il trauma e suscita sofferenza. I 73 naufraghi a bordo della nave ong Geo Barents soccorsi al largo della Libia sabato 7 gennaio si trovavano in queste condizioni. Tra di loro, ben 16 erano minori non accompagnati. «Poi c’era un ragazzo eritreo di 21 anni: sua madre lo ha fatto scappare perché nel loro Paese vige la leva forzata anche per i bambini e voleva evitare che venisse arruolato nell’esercito. L’esercito lo ha scampato, ma la detenzione in Libia no, e neanche le torture». «Un altro racconta di essere stato imprigionato in un container, insieme ad altri migranti. Una di loro era una donna, che aveva partorito un bambino morto. Per giorni sono stati rinchiusi lì dentro insieme a quel corpo senza vita».

Tra i migranti a bordo della Geo Barents 16 erano i minori non accompagnati. Molti erano ragazzi provenienti dai centri di detenzione libici.

Tra i migranti a bordo della Geo Barents 16 erano i minori non accompagnati. Molti erano ragazzi provenienti dai centri di detenzione libici.

A conoscere e raccontare le loro storie è il portavoce di Medici Senza Frontiere Maurizio Debanne che ha preso parte alle operazioni di aiuto. Il momento del soccorso non ha rappresentato però la fine della loro sofferenza, protrattasi invece per altri cinque giorni. Quelli necessari a raggiungere, dal punto del ritrovamento, il porto di Ancona, designato dal governo italiano quale unico possibile per lo sbarco. «Le operazioni di sbarco dei 73 migranti nel porto di Ancona sono iniziate al mattino presto e sono andate bene. Anche se nelle ultime ore il mare era molto mosso, con onde di quattro metri. Una sera al posto del cibo abbiamo dovuto distribuire sacchetti per il vomito», racconta Debanne. Un attracco che, secondo le distanze inflessibili dello spazio e del tempo, significava 1500 chilometri e tre giorni e mezzo di navigazione, poi aumentati a causa delle pessime condizioni meteorologiche. «Le operazioni di sbarco sono iniziate al mattino presto, poco dopo l’ingresso in porto alle 7:30 e sono andate bene: le persone hanno potuto scendere dalla nave e toccare finalmente terra – racconta Debanne –. Eravamo molto sollevati che l’intervento avesse potuto concludersi. Anche se le ultime ore sono state alquanto agitate a causa del mare mosso, con onde alte quattro metri. Una sera, invece di fare l’abituale distribuzione del cibo, abbiamo dovuto consegnare sacchetti per il vomito».

La scelta del porto marchigiano si inscrive alla perfezione nella politica perseguita nelle ultime settimane dal governo Meloni in tema di sbarchi: mercoledì 28 dicembre è stato infatti approvato un nuovo decreto legge, che è adesso all’esame del Parlamento e che entro sessanta giorni le Camere dovranno stabilire se approvare o meno, che introduce una serie di nuove norme concernenti le operazioni di salvataggio dei migranti in mare. Tra queste l’obbligo di raggiungere il porto di sbarco indicato dalle autorità italiane, qualunque esso sia, senza ritardi né altre soste per secondi soccorsi. Il nuovo decreto varato dal governo sui soccorsi in mare allunga i tempi degli sbarchi e, di conseguenza, le sofferenze dei migranti a bordo: persone vulnerabili, già provenienti da lunghi viaggi o dai centri di detenzione libici. «Per loro il mare non è un luogo piacevole, ma quello in cui si muore», chiosa Maurizio Debanne. Per chi contravviene alle indicazioni del nuovo decreto, è prevista una pena fino a 50mila euro di multa e la confisca della nave che violi le nuove regole, per quanto contrarie ad alcuni principi basilari del diritto marittimo internazionale. «Le norme internazionali parlano chiaro: il comandante di una nave ha l’obbligo di salvare vite in mare, non è un’opzione – chiarisce Debanne –. Se hai un incidente in auto a Torino, non ti porteranno mai all’ospedale Meyer di Firenze, ma in quello più vicino, dove il tuo caso potrà essere preso in considerazione nel più breve tempo possibile. È lo stesso principio dei salvataggi in mare». Si tratta di una decisione spontanea, dettata dall’urgenza del momento e dalle concrete esigenze delle vittime. A ricordarlo sono, tra gli altri, l’articolo 98 della Convenzione dell’ONU del 1982, con cui si vincola l’equipaggio a informare gli assistiti del “più vicino porto di scalo”, e la Convenzione di Amburgo del 1979 che richiama “le Parti interessate ad adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.

Il momento dello sbarco dei 73 migranti a bordo della nave di Msf Geo Barents nel porto di Ancona, avvenuto, dopo cinque giorni di navigazione, giovedì mattina.

Il momento dello sbarco dei 73 migranti a bordo della nave di Msf Geo Barents nel porto di Ancona, avvenuto, dopo cinque giorni di navigazione, giovedì mattina.

Oltre a prolungare il disagio delle persone, raggiungere un porto più distante comporta una serie di altre conseguenze meno immediatamente visibili, quali l’aumento dei costi legati al maggior consumo di carburante: nel caso della Geo Barents ad Ancona con i prezzi di oggi la spesa è stata di 70mila euro. Inoltre, trattenendo più a lungo le navi in punti distanti dal tratto che costeggia le coste africane, dove l’incidenza dei naufragi è più elevata, diminuisce la possibilità di effettuare soccorsi utili.

«È chiaro che allontanare le ong dal luogo di soccorso è un modo per ostacolarne l’azione, ma ciò cui Msf vuole invitare è mantenere la luce dei riflettori sulle persone, che rischiano la morte in mare se non c’è un sistema di soccorso efficace. Noi siamo pronti domani a smettere con questa attività, a condizione che l’Italia e gli Stati europei costruiscano un sistema adeguato di intervento. Non possiamo accettare che questa rotta sia diventata un cimitero a cielo aperto».

«Nel tempo si è creato un cortocircuito che tende a mostrare soltanto l’ultima parte di un problema che in realtà è gravissimo già in partenza, ma che noi continuiamo a trattare come se cominciasse quando le persone sono in mare e arrivano – riflette la giornalista italo-siriana Asmae Dachan che ha seguito lo sbarco di Ancona –. Il problema è a monte e riguarda il diritto umano alla mobilità: bisognerebbe ampliare le possibilità di viaggio anche per le persone del sud del mondo, perché non è possibile che se nasci in una parte povera o colpita da eventi bellici l’unica modalità concessa per metterti in salvo o non morire di fame è partire pagando i trafficanti. Credo che andrebbe allargato lo sguardo, andando oltre i discorsi pietistici di assistenzialismo e ripristinando il diritto di queste popolazioni di poter essere finalmente autonome e di praticare un potere decisionale sul destino delle proprie risorse».