Prosegue in patria e all’estero la protesta degli iraniani ma, soprattutto, delle iraniane, contro la brutalità del governo nei confronti dei manifestanti. A seguito della scomparsa di Mahsa Amini, la ventiduenne curda arrestata e poi uccisa dalla polizia per non aver portato correttamente il velo, sarebbero stati uccisi 277 manifestanti, alcuni di questi con pubblica condanna a morte, e arrestate 14mila persone. Nelle piazze di tutto il mondo si cerca di tenere alta l’attenzione e, a Milano, l’ultima azione è stata un flash mob organizzato la prima domenica di aprile al Giardino dei Giusti dall’organizzazione Gariwo. L’azione ha visto protagonisti donne e uomini iraniani e milanesi in una partecipata e pacifica dichiarazione di condanna nei confronti dei metodi violenti utilizzati dal governo di Teheran nei confronti di chi esprime il suo dissenso in pubblico. In questo scenario di protesta, lo sport ha mostrato per l’ennesima volta la potenza del suo linguaggio, divenendo luogo di un’importante mobilitazione. Dalla nazionale maschile di pallanuoto a quella di beach soccer, passando per arrampicata e calcio. Sono sempre di più gli atleti che in occasione di importanti eventi sportivi si rifiutano di cantare l’inno nazionale iraniano in segno di protesta contro il regime di Teheran. Lo sport, tra l’altro, in Iran è proprio uno degli ambienti in cui la disparità di genere si fa sentire maggiormente. Per capire meglio cosa significhi oggi per un’atleta donna praticare sport in Iran, abbiamo parlato con Maryam Majd, fotografa e attivista, i cui scatti raccontano da ormai vent’anni le difficoltà che le atlete iraniane sono costrette ad affrontare ogni giorno.
In Iran lo sport femminile è ancora un tabù per via di una serie di implicazioni culturali e politiche: lo sa bene la fotografa Maryam Majed, prima donna dei media ad entrare in uno stadio dove si giocava il calcio femminile In Iran lo sport femminile è ancora un tabù per via di una serie di implicazioni culturali e politiche. L’Iran, per definizione, è una società patriarcale, tradizionale e religiosa, i cui principi si riflettono soprattutto nel campo dei media. La stampa iraniana è l’esempio più lampante di questo fenomeno: ci sono voluti diversi anni prima che le donne potessero anche solo comparire all’interno dei giornali. Il punto di “rottura” coincide con la rivoluzione del 1957: da allora lo sport femminile ha iniziato ad assumere una forma e una valenza differente nel nostro Paese. Con l’insediamento del governo riformista le cose sono iniziate a cambiare: i volti femminili iniziavano a ricomparire sulle riviste di arte, cinema e sui quotidiani sportivi nazionali. Fino ad allora, qualsiasi notizia riguardante le donne veniva trattata con superficialità: due o tre righe al massimo o, in alcuni casi, sotto forma di titolo.
Le donne in Iran non possono nemmeno andare liberamente allo stadio. Perché pensi che il tuo Paese si trovi ancora in questa situazione?
L’Iran è un Paese governato da uomini, un posto dove regnano disuguaglianza e discriminazione. Sono passati 44 anni dalla rivoluzione ma la situazione è sempre la stessa, le donne non possono entrare negli stadi durante le manifestazioni sportive. Non c’è una ragione valida, stiamo parlando di una norma stupida e offensiva. Le donne non si siedono già l’una accanto all’altra per strada, sul posto di lavoro, sull’autobus o sul treno? Perché non dovrebbero farlo in uno stadio? Sono semplici prese di posizione, figlie di una testardaggine politico-culturale.
L’accesso agli stadi, tra l’altro, è solo una delle tante forme di discriminazione verso il genere femminile.
La legge iraniana prevede che una donna debba chiedere il permesso al coniuge, al padre o al tutore per fare qualsiasi cosa. Una donna non può viaggiare, iscriversi a scuola o rinnovare il passaporto senza il permesso scritto di una figura maschile che ne faccia le veci. E le atlete non fanno eccezione a questa regola.La legge iraniana prevede che una donna debba chiedere il permesso al coniuge, al padre o al tutore per fare qualsiasi cosa. Una donna non può viaggiare, iscriversi a scuola o rinnovare il passaporto senza il permesso scritto di una figura maschile che ne faccia le veci. E le atlete non fanno eccezione a questa regola. Per viaggiare devono presentare al Ministero dello Sport o alla Federazione stessa un’autorizzazione scritta dal padre o dal marito. Viceversa, non potranno lasciare il Paese.
É mai successo che un’atleta non riuscisse a partire con la nazionale per queste ragioni?
Sfortunatamente sì, ci sono stati diversi casi. Samira Zargari della nazionale iraniana di sci non ha potuto partecipare ai campionati del mondo perché suo marito non ha voluto firmare l’autorizzazione. Prima di lei è successo anche a Nilofar Ardalan, capitana della nazionale femminile di Futsal, e a Zahara Nemati, due volte campionessa del mondo di tiro con l’arco ai giochi paraolimpici.
L’accesso allo sport femminile in Iran è stato anche l’oggetto di uno dei tuoi lavori più recenti, The fight with an unknown opponent”, realizzato durante la pandemia da COVID-19. Qui il “nemico sconosciuto” è solo o soprattutto il Covid?
Il motivo principale per il quale ho scelto questo titolo non ha a che fare direttamente con la pandemia. Fotografo le atlete iraniane da 18 anni e conosco bene le condizioni di difficoltà che sono costrette ad affrontare quotidianamente. Loro combattono ogni giorno contro un avversario sconosciuto, non solo sul campo da gioco, ma anche nella vita personale. Ed è proprio qui che riescono a mostrare al mondo la loro forza, la loro resilienza.