Impugnare il manubrio di una bicicletta, premere l’acceleratore, cliccare il mouse in modo meccanico. Inizia così la vita dei gig workers, i lavoratori del XXI secolo. Tracciare i contorni della gig economy, “l’economia dei lavoretti”, non è semplice. Si tratta di disintermediazione: una piattaforma digitale permette l’incontro tra domanda on demand e offerta di gig, incarichi occasionali e temporanei. Negli ultimi anni il mondo del lavoro ha assunto forme diverse da quelle conseguenti a contratti a tempo indeterminato. Nel concreto, niente più sicurezza o garanzia di futuro. Lo scenario è oggi perlopiù incerto, con mansioni spesso limitate nella durata e cui corrispondono basse retribuzioni. Cambiano le dinamiche tra lavoratore e datore di lavoro: il rischio dell’impresa passa dal secondo al primo. E il gradimento del consumatore (le famose stelle di Uber, per esempio) condiziona la prestazione.

Tracciare i contorni della gig economy, “l’economia dei lavoretti”, non è semplice. Si tratta di disintermediazione: una piattaforma digitale permette l’incontro tra domanda on demand e offerta di gig, incarichi occasionali e temporanei.

Un’idea di chi componga l’universo della gig economy è fornita dal XVII rapporto annuale dell’INPS (luglio 2018). Le fasce di età maggiormente coinvolte sono quelle tra i i 30 e i 39 anni e i 40 e i 49 anni, che oscillano tra il 27% e il 30% del totale. Tra 18-24 e 25-29 si colloca rispettivamente solo il 10%, percentuale che raddoppia nella fascia 50-64. Lo studio condotto dal Cnel “Il lavoro nella gig economy” individua quattro categorie di piattaforme digitali che offrono lavoro ai gig workers: fornitura di servizi di taxi e trasporto di persone (Uber, Lyft, etc.); organizzazione consegne e distribuzione di beni mediante rider (Foodora, Deliveroo, etc.); facilitazione dell’incontro tra domanda ed offerta di servizi (Vicker, TaskRabbit, etc.); Amazon Mechanical Turk, esempio di crowdworking in cui il lavoro viene offerto e contestualmente svolto mediante la medesima piattaforma digitale. Una definizione tuttavia non univoca quella di gig economy, che in alcuni casi comprenderebbe anche l’asset rental, cioè l’affitto e il noleggio di beni e proprietà (per esempio Airbnb). Ciò che è certa è la dimensione del fenomeno. Nel 2017, secondo un’indagine condotta dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, il numero dei gig workers in Italia oscillava tra le 500mila e le 750mila unità. Di queste, secondo l’Inps, più di 137mila renderebbero la propria prestazione lavorativa solo mediante piattaforma, quindi come unica occupazione. Lavorare nel campo della gig economy può essere una valida soluzione per integrare le proprie entrate con mansioni ad alta flessibilità. Ma non è raro che ciò che nasca come “lavoretto” diventi unica fonte di reddito. Chi appartiene a questa seconda categoria lavora in media più di dieci ore a settimana, con picchi in alcuni casi di trenta o quaranta ore. Il 50% dei gig workers non supera invece le quattro ore ogni sette giorni.

Uno dei settori in cui la gig economy si è diffusa con maggiore facilità è quella del food-delivery. «Benché i rider costituiscano al massimo il 12% del totale del gig workers italiani, il fatto che siano spesso al centro di indagini sociologiche e giornalistiche li ha resi “rappresentanti” di un’intera categoria di prestatori di lavoro», spiega Francesco Bacchini, docente di Diritto del lavoro all’Università di Milano-Bicocca. Diventare rider è semplice. Non sono richieste particolari competenze né titoli di studio. Sono sufficienti uno smartphone e un mezzo, di solito una bicicletta, con cui effettuare le consegne. Il punto più controverso è la regolamentazione. «La legge n.128 del 2019 disciplina, a mio parere in modo vergognoso, i collaboratori organizzati dal committente. Si rivolge in generale anche ai lavoratori delle piattaforme digitali, con una normativa specifica per i rider, disciplinati come lavoratori autonomi coordinati anche se qualche norma di protezione è mutuata dalla disciplina della subordinazione, per esempio in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di permessi, malattia e ferie», commenta il professore. Una questione, quella delle tutele, che non può essere letta solo in relazione alla tipologia contrattuale. «La diversificazione delle tutele è ammissibile: un lavoratore della gig economy ha un margine di autonomia molto maggiore rispetto a un lavoratore subordinato, decidendo se e quando vuole lavorare. Il punto è un altro. Ci si deve domandare se le tutele previste per i gig workers, e in modo più specifico per i rider, siano sufficienti», precisa Bacchini. Che continua: «Si tratta sempre di un giudizio relativo. È facile fornirne uno negativo se le tutele dei rider vengono rapportate a quelle previste per i lavoratori subordinati. Ma se il confronto è con i lavoratori autonomi, la valutazione sarà positiva: non c’è infatti paragone tra le tutele offerte a questa categoria e quelle che l’ordinamento ha esplicitamente stabilito per i ciclofattorini».

La soluzione per il professore è il decent work, il lavoro dignitoso. «Credo che il legislatore italiano dovrebbe iniziare a riflettere sulla necessità delle tutele minime che dovrebbero avere tutti i lavoratori, cui dovrebbero aggiungersi quelle specifiche e derivanti dal contratto che viene stipulato. Uno scenario che si desume anche dalle raccomandazioni che si sono succedute dalle ricerche e dai paper che sono stati organizzati e poi resi disponibili dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro», spiega Bacchini. Nel 1999 il direttore generale dell’Oil, presentando il Rapporto Decent Work, esprimeva un principio fondamentale: “Oggi l’obiettivo primario dell’agenzia è garantire che tutti gli uomini e le donne abbiano accesso ad un lavoro produttivo, in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana”.

La gig economy affonda le sue radici negli Stati Uniti. Benché già se ne parlasse negli anni Sessanta del secolo scorso, è solo nel 2015 che l’economia dei lavoretti inizia a suscitare reale interesse. La motivazione è data da una dichiarazione di Hillary Clinton, ai tempi candidata dem alle presidenziali americane: «Molti americani stanno trovando nuove forme di guadagno affittando stanze libere in casa, disegnando siti Internet, usando la loro macchina per dare passaggi. La cosiddetta gig economy o economia on-demand crea entusiasmanti opportunità e stimola l’innovazione, ma solleva anche questioni assolutamente da risolvere sulla protezione dei lavoratori e sulla difesa dei diritti acquisiti». Non esiste una quantificazione precisa degli numero degli american gig workers. Nel 2017, il Bureau of Labour Statistics stimava che si trattasse di più di 55milioni di persone, circa il 34% dei lavoratori. Numeri forse destinati a ridimensionarsi a causa degli effetti negativi della pandemia. Un paio di dati: Airbnb ha comunicato il licenziamento di un quarto dei suoi dipendenti a causa della paralisi di viaggi e turismo; Lyft, società che facilita, grazie a una app, la condivisione di autovetture, ha ridotto la forza lavoro del 17% in conseguenza del repentino crollo delle tratte in auto.

Il confronto tra il mercato del lavoro statunitense e quello italiano è necessario per comprendere quali opportunità vengano offerte dalla gig economy. E anche per conoscere come il legislatore si sia approcciato alla definizione della materia. «In USA il contratto individuale è sovrano. Non ci sono vincoli contrattuali, ogni azienda ha le sue regole; esistono i sindacati di company, cioè interni all’azienda, ma non c’è contrattazione collettiva né minimi tabellari stabiliti dalle organizzazioni sindacali», spiega il professor Bacchini. Lo scorso anno la California ha compiuto un passo decisivo. La legge AB5, approvata a settembre 2019, stabilisce che i gig workers, soprattutto i platform workers, debbano essere qualificati come lavoratori dipendenti. Una norma che assume un significato diverso rispetto a quello che si potrebbe avere in Italia. «Negli Stati Uniti non c’è una regola generale per i lavoratori dipendenti. Dire, come è accaduto con la legge AB5, che il platform worker sia un lavoratore dipendente non cambia radicalmente la disciplina fino a ora esistente, ma incide sul contratto individuale che viene fatto stipulare e sulle tutele che le union interne all’azienda riescono a fare inserire in quel contratto», commenta. «Alcune ricerche hanno calcolato che in California, dopo l’approvazione di questa legge, il costo del lavoratore aumenterebbe circa del 20-30%. Se in Italia una normativa prevedesse che tutti i coloro che lavorano per le piattaforme digitali diventassero subordinati, il peso economico per le piattaforme digitali sarebbe enormemente più gravoso. Il costo del singolo lavoratore aumenterebbe anche del doppio rispetto a quello attuale di un lavoratore autonomo o di un collaboratore organizzato dal committente».

L’enorme differenza tra mondo del lavoro americano e italiano trova riscontro in Amazon Mechanical Turk, piattaforma di crowdsourcing che, come si può leggere sul sito mturk.com, “rende più semplice, per individui e imprese, appaltare mansioni a una forza lavoro delocalizzata e che può portare a termine l’incarico virtualmente”. Lavorare per AMT richiede solo due requisiti: avere almeno 18 anni ed essere muniti di connessione a internet. Chi stipula un contratto con Amazon Mechanical Turk si impegna a svolgere le HITs, le human intelligent tasks, mansioni in cui l’intelligenza umana è richiesta proprio perché ancora in grado di superare quella artificiale. Alcuni esempi sono la moderazione di contenuti, l’identificazione di un oggetto all’interno di un video o di una foto, la sentiment analyisis. Ogni turker sceglie quale HIT svolgere sulla base di criteri quali la competenza richiesta – più alto sarà il grado di specializzazione, maggiore sarà la retribuzione – e il tempo previsto per completare la task. Guadagnare è possibile solo se l’attività svolta entro il termine fissato venga approvata dal requester, cioè chi ha appaltato il servizio ad AMT.  La tariffa minima? Un centesimo. Una realtà forse incomprensibile per il mercato del lavoro italiano. Ma anche qui il punto è la differenza normativa tra Italia e Stati Uniti. «Si tratta di un sistema in cui una prestazione deve essere adempiuta nei tempi e modi previsti dall’accordo stretto con la piattaforma. Ma se non si raggiunge il risultato rispettando le condizioni previste, è il contratto stesso a non dare diritto alla controprestazione economica. Questo perché nel sistema americano il contratto non ha limiti e determina precise regole e tutele», spiega il docente. «Si tratta sicuramente di un ambito di confine. Sono condizioni contrattuali particolarmente hard, molto spinte verso l’alea pura. Il lavoratore potrebbe non riuscire a raggiungere il risultato poiché impossibile, lavorando dunque “per nulla”. Ne può derivare dunque una conseguenza di tipo giudiziale, cioè il risarcimento del danno. Ma la conseguenza contrattuale sarà debole».

Il vero punto di rottura nell’approccio giuslavoristico americano ed europeo alla gig economy è la concezione del rischio: nel primo caso è del lavoratore; nel secondo è ancora quasi totalmente rimesso al committente o al datore di lavoro. «Credo che si tratti di una reazione da iper-protezione. Nella cultura occidentale il lavoro è arrivato ad avere una tutela che va oltre la logica economica, mentre nel sistema economico e giuridico lavorativo statunitense è sempre il mercato a determinare quali saranno le regole sostenibili a livello giuridico», conclude il docente. Ma lo schema sta cambiando e modelli diversi per origine trovano nella loro evoluzione punti di contatto. La globalizzazione dei mercati e dei sistemi produttivi si interseca con la progressiva digitalizzazione. Non esiste più alcun limite di competenza, tempo o spazio: chiunque, in qualunque momento e ovunque può fornire una prestazione di lavoro tramite uno smartphone. Pur diventando imprenditore di se stesso, ogni platform worker è quasi sempre sostituibile. Guadagni certi si accompagnano a profili confusi. E non solo dal punto di vista giuridico.