La storia della criminalità, italiana e non solo, è costellata di piccoli Arsenio Lupin che con i loro reati ingolfano i fascicoli delle procure. Se, infatti, le collezioni di gioielli, come le mode, si evolvono nel tempo, ciò che non cambia è la voglia di accaparrarseli come bottino di rapine, ricorrendo ai metodi più vari.
L’ultimo eclatante caso è avvenuto meno di un mese fa. Nella notte del 9 giugno scorso, nella celebre via Condotti romana , una banda di almeno tre uomini a volto coperto ha razziato gioielli per mezzo milione di euro introducendosi da Bulgari attraverso la vecchia “tecnica del buco”, ossia scavando un cunicolo che da un palazzo vicino ha permesso loro di entrare nel punto vendita.
Di episodi simili ce ne sono stati anche a Milano, la capitale del lusso, dove le vie del Quadrilatero diventano un banchetto prelibato per gruppi più o meno improvvisati di rapinatori. Come nel 2018, quando cinque uomini con l’accento dell’Est Europa e a volto scoperto hanno svaligiato l’orologeria Audemars Piguet di via Montenapoleone per poi scappare in bicicletta, dopo aver arraffato 17 orologi per un totale oltre un milione di euro.
Ma la creatività delle bande si spreca nell’ideare i metodi più disparati per portare a termine il colpo: negli scorsi sei-sette anni nel capoluogo lombardo erano predominanti le cosiddette “spaccate” , irruzioni che consistono nel penetrare all’interno degli esercizi rompendone le vetrine; eppure, da qualche tempo le acque, almeno su questo fronte, sembrano essersi calmate.
«Dal 2022 effettivamente non abbiamo più assistito a fatti analoghi, particolamente violenti, ma ciò non significa che non si siano consumate rapine a piccole gioiellerie piuttosto che a rivenditori» afferma il vicequestore aggiunto Francesco Giustolisi della Squadra mobile della Questura di Milano. Oltre che verso le gioiellerie dei marchi più noti e i rivenditori autorizzati, rimane costante l’attrazione della criminalità anche per i laboratori orafi, dove è possibile e più conveniente reperire materie prime o manufatti da fondere, occultare o rivendere senza lasciarne traccia.
Tre anni fa toccò al laboratorio Trafilor di via Assab, zona Cimiano, vittima di un vero e proprio raid messo a segno con tanto di pistole e fascette da elettricista per sequestrarne i dipendenti. Il bottino, in questo caso, fu una partita di gioielli lavorati, semilavorati e pezzi di oro e palladio per un milione di euro. Lo scorso aprile, una banda di dodici italiani è stata arrestata con le accuse di detenzione di armi e munizionamento, detenzione e ricettazione di divise delle forze dell’ordine di provenienza illecita e detenzione di sostanze stupefacenti: secondo quando emerso sinora, alcuni di loro potrebbero essere gli esecutori della rapina a Trafilor, ma le indagini sono ancora in corso. Si tratta comunque di una residuale espressione della delinquenza di matrice autoctona che, dagli anni Novanta, sembra ormai relegata a un ruolo secondario dagli organizzatissimi gruppi balcanici. «Se in passato abbiamo assistito alle grandi rapine realizzate soprattutto da italiani, con partecipazione di gruppi provenienti dal Sud e banditi locali, nell’ultimo quindicennio si è registrata una discreta evoluzione della criminalità straniera per quanto riguarda l’oggettistica di lusso e il comparto orologi e gioielli: ora l’attenzione è puntata anche su gruppi di origine rumena e soprattutto verso la criminalità balcanica dei Pink Panther» spiega Giustolisi. Questo gruppo trae le sue origini dall’ambiente militare e paramilitare dell’ex Jugoslavia ma poi si è evoluto, coinvolgendo anche generazioni più giovani, e ha avuto un’esplosione in tutto il mondo: le sue cellule, caratterizzate da una violenza e una capacità inusuali, hanno colpito, ad esempio, dal Giappone alla Francia, dalla Germania alla Svizzera, fino al Nord Italia.
Sembrano ormai lontani i tempi in cui i volti noti della mala milanese, da Renato Vallanzasca a Luciano Lutring, da Enzo Barbieri a Francis Turatello, erano protagonisti, oltre che della maggior parte delle malefatte meneghine, anche delle prime pagine della cronaca cittadina
Sembrano ormai lontani i tempi in cui i volti noti della mala milanese, da Renato Vallanzasca a Luciano Lutring, da Enzo Barbieri a Francis Turatello, erano protagonisti, oltre che della maggior parte delle malefatte meneghine, anche delle prime pagine della cronaca cittadina. In quei giorni a terrorizzare le strade del centro non erano le “pantere balcaniche” ma la ligera, la mala sorta dalle ceneri della povertà del dopoguerra, e la cui evoluzione fu un filo rosso, che intrecciò le varie fasi di sviluppo della metropoli, dalla sua ricostruzione al boom economico, sino agli anni di piombo. La provenienza del termine “ligera” è discussa, ricondotta da alcuni alla leggerezza delle tasche semivuote dei criminali e da altri a quella degli atti, compiuti senza ricorrere ad armi e senza spargimenti di sangue. I protagonisti non erano veri e propri “gangsters”, ma criminali comuni quali borseggiatori, piccoli rapinatori, protettori, strozzini, contrabbandieri e ricettatori, di trent’anni o poco più, che comunicavano con un gergo tutto loro: l’oro lo chiamavano “polenta”, i dadi delle bische “borlótt”. Dalle prime spaccate per poi arrivare alla progettazione di colpi più studiati, è così nata nell’immaginario la leggenda del criminale milanese, ancora oggi fonte di rispetto e di fascino non solo all’interno dello stesso ambiente criminale e carcerario, ma anche nel mondo letterario e nella tradizione cinematografica. «Il rapinatore, o per lo meno chi studia i colpi, è una delle figure più rispettate tra i detenuti, perché viene considerato un criminale di spessore, astuto e coraggioso, che riesce a guadagnare molto lavorando poco» spiega il giornalista e scrittore Piero Colaprico, autore di diversi romanzi sulla criminalità cittadina.
La seduzione che queste figure continuano ad esercitare anche sull’opinione pubblica è poi favorita dal metodo con cui erano solite agire: «Da sempre, per chi riesce a fare il colpo senza ferire non esiste mai una grande riprovazione», osserva Colaprico. Soprattutto perchè, in alcuni casi, il bottino veniva poi redistribuito tra la gente bisognosa del proprio quartiere: è il caso di Enzo Barbieri, noto come il “Robin Hood dell’Isola”. Emblema di questa sensazione popolare è del resto la frase con cui Indro Montanelli commentò la celebre rapina di via Osoppo del 27 febbraio 1958, in cui venne assaltato un portavalori: «Ufficialmente sì, tutti scrivono e proclamano che sono contenti, anzi entusiasti del fatto che i criminali siano stati smascherati in modo da togliere a chiunque la voglia di imitarli. Ma, sotto sotto, senza osare dirlo o dicendolo a bassa voce, la maggioranza tifava per i rapinatori. Quello scontro, calcolato alla frazione di secondo, fra il portavalori e il camion, per distrarre l’attenzione dei passanti, e quell’assalto al furgone, rapido ed esatto da sembrare radiocomandato, aveva mandato in visibilio gli italiani».
«Ufficialmente sì, tutti scrivono e proclamano che sono contenti, anzi entusiasti del fatto che i criminali siano stati smascherati in modo da togliere a chiunque la voglia di imitarli. Ma, sotto sotto, senza osare dirlo o dicendolo a bassa voce, la maggioranza tifava per i rapinatori», scriveva Indro Montanelli sulla rapina di via Osoppo
Proprio la rapina di via Osoppo è entrata a far parte della memoria storica della città, assieme a quella di via Montenapoleone del 1964, che venne però compiuta non da bande locali, ma dal cosiddetto clan dei Marsigliesi, che riusci’ a raccogliere un bottino stimato in più di 350 milioni di lire, tra anelli, collier, bracciali, spille e orecchini.
Dopo questi primi anni di monopolio da parte della mala milanese, a contenderle il terreno e la scena criminale arrivarono quelli che le rapine le facevano per finanziare la propria attività politica illecita: iniziarono gli anni di piombo e la violenza divenne sempre più sistematica. Intanto, i grandi della mala, Turatello, Vallanzasca ed Epaminonda, capirono che era necessario armarsi sino ai denti per poter continuare i loro affari in una città dove vigeva ormai la legge del più forte.
Credevano che sarebbero rimasti impuniti per sempre: «Col cavolo che a me mi prenderanno mai», diceva Francis Turatello. Ma negli anni Ottanta arrivò la resa dei conti con la giustizia per molti: iniziarono gli arresti e la criminalità cambiò volto, per adeguarsi al mutare dei tempi e a una città che stava diventando troppo grande per essere gestita come avvenuto sino a quel momento. É nata così una delinquenza più occulta, che si nutre di rapporti con le istituzioni e con le altre realtà criminali organizzate provenienti dal Sud Italia e dall’Estero, e che si focalizza maggiormente sul mercato di droga e sull’aggiudicazione di appalti.
I grandi personaggi della criminalità milanese ormai non hanno più niente da fare sul dilagare di quella straniera
É cominciato allora un lento declino di quella che era la leggendaria mala di una volta, per arrivare ai giorni nostri, descritti da Colaprico in questi termini: «I grandi personaggi della crminalità milanese ormai non hanno più niente da fare sul dilagare di quella straniera: mentre il controllo del territorio c’è ancora in alcune parti di Italia, come in Sicilia e in Puglia, dove è difficile fare rapine senza il benestare del boss locale, in grandi città come Milano è facile riuscire ad agire liberamente senza farsi notare, per cui la delinquenza autoctona è spiazzata da quelle provenienti dall’esterno».
Con il suo evolversi, la criminalità odierna ha quindi perso gran parte dell’alone di fascino con cui era percepita nei decenni scorsi. Per questo, chi vuole romanzarla attinge a piene mani dalle storie e dalle figure del passato, evocandone le gesta, tra luci e ombre di vite spesso al limite.