Mai come prima d’ora, la penna del giornalista costituisce un’arma pericolosa da maneggiare con cautela eoggi, giornata internazionale della libertà di stampa, lo si ricorda ancora una volta e più, considerata la stretta che molti governi hanno imposto sui giornalisti e sull’informazione, favorita dai tempi eccezionali della pandemia.

La comunicazione dell’emergenza sanitaria sta influenzando fortemente la vita dei cittadini, immersi in un sistema mediatico in cui il confine tra buona informazione e disinformazione si fa spesso molto sottile.Come ha affermato il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il vero nemico da combattere è l’infodemic, ovvero l’eccessivo carico di informazione virus-centrica che, se mal gestita, può causare conseguenze gravi per la salute pubblica. A tal proposito, il Reuters Institute of Journalism di Oxford ha analizzato un campione di 225 articoli in lingua inglese, pubblicati tra gennaio e marzo 2020, classificati da alcuni fact-checker della piattaforma First Draft come contenenti notizie false o fuorvianti. Particolarmente rilevante è il dato che mostra che il 59% delle notizie false è frutto di una decontestualizzazione, manipolazione o riconversione di notizie vere; mentre il 38% delle fake news vengono create ex-novo. Nell’enorme galassia dei social media, le prime fluttuano per l’87%, le seconde per il 12%.

Secondo il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il vero nemico da combattere è l’infodemic, ovvero l’eccessivo carico di informazione virus-centrica che, se mal gestita, può causare conseguenze gravi per la salute pubblica.

Per mettere ordine a questa esplosione infodemica,da Boston arriva un vero e proprio vademecum (https://blogs.scientificamerican.com/observations/how-to-report-on-the-covid-19-outbreak-responsibly/ ) per i giornalisti che si trovano ad affrontare il tema Coronavirus. A pubblicare questo articolo su Scientific American sono Bill Hanage e Marc Lipsitch, docenti di epidemiologia dell’Harvard T.H. Chan School of Public Health che ironicamente sottotitolano: «Ricordate, il virus non segue le notizie e non si interessa di ciò che accade su Twitter». Prima di tutto, secondo i due docenti, è necessario diversificare le fonti, in altre parole dare voce a diverse professionalità che possono dare un apporto significativo all’informazione pandemica. Fondamentale, in secondo luogo, è la cautela a discapito del tempismo: «una domanda che oggi trova risposta in un’opinione, domani può trovare risposta in un fatto certo». Infine, distinguere ciò che accade sporadicamente da ciò che accade frequentemente.

I corsi di formazione per i giornalisti che vogliono formarsi in maniera coscienziosa su come trattare il flusso di informazioni sul Covid-19 e sulle misure di contenimento prese dai governi nazionali, sono uno strumento necessario ad evitare situazioni scomode, come è successo per un caso italiano che ha creato non poche polemiche. Sull’edizione del 19 Aprile del Corriere della Sera si è verificato un vero e proprio esempio di cattiva interpretazione di dati: si tratta di un episodio da non sottovalutare perché, anche se gli errori non appartengono geneticamente a nessun giornalista, interpretare i dati in maniera errata può indurre il lettore a riflessioni sbagliate.In questo articolo, si sostiene che uno studio italiano abbia dimostrato come le misure di contenimento non siano servite sul piano medico e anzi, hanno solo contribuito ad affossare la situazione economica italiana. In realtà lo studio è stato erroneamente interpretato dalla giornalista, che riteneva che l’evoluzione dell’epidemia dipendesse esclusivamente dall’andamento dei contagi nei primi 17 giorni. A sostegno della sua argomentazione, la giornalista ha sostenuto che il numero di contagi durante il lockdown sarebbe stato identico al numero di contagi se non si fossero applicate queste misure.

Si tratta di un puro errore di logica: per sostenere l’affermazione cardine riportata nell’articolo bisognerebbe analizzare il fatto, prendendo come riferimento una medesima situazione con le medesime condizioni, e operare dei confronti. Questo procedimento, alla base di ogni ragionamento scientifico, qui non è mai stato applicato. A questo proposito Matteo Villa dell’Ispi online, Istituto per gli studi di politica internazionale, ha dimostrato in un suo articolo come affermazioni simili non siano solamente false, ma anche dannose.

In poche parolel’attenzione di Matteo Villa si concentra soprattutto sul fatto che esistono dei contagi in scala, e quindi previsti e certificati, e altri “fuori scala”, che si presumono ma non sono attendibili, confermando quanto segue:sebbene il virus non abbia un livello di letalità inferiore a quella del previsto, la sua pericolosità resta immutata. Non solo: sempre “grazie” a questo studio, la giornalista prosegue con una riflessione sull’immunità di gregge, affermando che, se i contagi sono bassi, saremmo tutti fuori pericolo. Falso. Per potere affermare questo, dovremmo avere almeno il 60% della popolazione già immunizzata, con la certezza che abbia già contratto il virus, sviluppando gli anticorpi.

Bisogna quindi avere un grado di formazione tale, in situazioni come queste, da dare ai numeri un significato preciso, facendo bene attenzione a calcolare tutte le variabili. E, per quanto riguarda i giornalisti, ogni tanto delegare il proprio lavoro agli esperti, senza aver paura di perdere credibilità.