Alza la mano se, a causa del tuo genere, il tuo salario potrebbe essere più basso e se è probabile, sempre a causa del tuo genere, che tu abbia meno possibilità di ricoprire ruoli di vertice. Alzala anche se ti accade spesso che il tuo modo di vestire venga giudicato come lascivo, volgare, provocante e se il tuo comportamento gentile potrebbe essere frainteso, venendo connotato da un’accezione sessuale. Alzala, insomma, se sei una donna.
Le stime del report annuale del World Economic Forum (WEF) sulla disparità di genere parlano chiaro: ci vorranno circa cento anni perché nella gran parte dei Paesi considerati dal WEF il gender gap sia colmato. E addirittura 257 se si considera la sola partecipazione economica, un indicatore che si riferisce alla disparità tra donne e uomini in termini di presenza, remunerazione e sviluppo nella forza lavoro. Rispetto a questo criterio, l‘Italia si collocava nel 2019 - l’ultimo anno considerato nel report WEF - 117esima su un totale di 153 Paesi, ottenendo invece nella classifica generale il 76esimo posto, in calo di sei posizioni rispetto al 2018. La tabella qui sotto evidenza le differenze per l’Italia tra il 2006, primo anno di pubblicazione del Global Gender Gap Index del WEF, e il 2020. Il valore numerico contenuto nella prima colonna evidenza la posizione ricoperta dall’Italia in riferimento a un certo indicatore, mentre quello della seconda colonna si riferisce al punteggio ottenuto. Più questo secondo valore si avvicina a uno, maggiore è la parità tra uomo e donna (1=assoluta parità di genere). Gli indicatori considerati sono rispettivamente: indice globale di disparità nel Paese; partecipazione economica e opportunità; traguardi educativi, cioè il gap di accesso all’educazione tra uomini e donne; salute e sopravvivenza, basato sulla proporzione tra donne e uomini alla nascita e sull’aspettativa di vita; emancipazione politica, corrispondente al numero di donne e uomini presenti nelle posizioni politiche di vertice.
«A me piace molto l’hashtag #lottomarzo, perché c’è molto da lottare e poco da festeggiare. Rispetto a un anno fa, all’inizio della pandemia, l’unica cosa che c’è da festeggiare è che si parla con più forza del tema, che è sul tavolo anche nell’elaborazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR, ndr), mentre prima si taceva», spiega la professoressa Azzurra Rinaldi, docente di economia politica a La Sapienza di Roma. Se si considerano i dati nel dettaglio, la ricorrenza dell’8 marzo appare infatti tutto tranne che una festa. Nel solo mese di dicembre 2020, su un totale di 101mila posti di lavoro persi, 99mila erano occupati da donne. E su un totale di 13.759 milioni inattivi tra i 15 e i 54 anni, le donne rappresentavano il 64%. «Il panorama occupazionale italiano è sconfortante», continua la professoressa Rinaldi. «Prima della pandemia avevamo superato il 50% nel tasso di occupazione femminile, anche se solo dello 0,1%. Una conquista, anche se simbolica, che nel giro di pochi mesi è stata però cancellata riducendosi fino al 48,6%. Al di là del dato in sé, questa variazione ci dice che i risultati che conseguiamo e che pensiamo possano essere solidi, quando riguardano le donne non lo sono mai e vengono spazzati via in un attimo».
Le differenze occupazionali sono enormi soprattutto dal punto di vista regionale. Secondo ISTAT, nel terzo trimestre 2020 il tasso di occupazione femminile nel Nord Italia e nel Centro era pari rispettivamente al 57,3 e al 54,8%, mentre nel Sud Italia il valore si fermava al 32,3%. Al primo posto si collocava la Valle D’Aosta, con il 62,7% di donne occupate; all’ultimo la Campania, con il 28,2%. «Perché nel Sud Italia solo una donna su tre lavora? Nella maggior parte dei casi la causa è il sovraccarico del lavoro di cura non retribuito (cioè il lavoro domestico e il lavoro di cura delle persone, come bambini, anziani e malati, ndr). Questo è il grande tema, il grande elefante nella stanza», spiega la professoressa Rinaldi. «È inutile stanziare fondi, peraltro miserrimi, per l’occupazione e l’imprenditoria femminile nella Legge di Bilancio se poi non liberiamo la forza lavoro. Prima bisogna creare la struttura e rendere le donne in grado di cercare un lavoro, di andare a lavorare. Pochi giorni fa il professore Carlo Cottarelli ha detto che il Paese deve ripartire dai nidi. Noi lo diciamo da tempo, ma il fatto che ora lo dica un uomo renderà forse l’appello più ascoltato di quanto sia stato fatto con noi negli ultimi 20 anni».
La pandemia ha aggravato le diseguaglianze esistenti. I fondi derivanti dal Recovery Fund, il fondo europeo da 209 miliardi destinato all’Italia, dovranno essere stanziati secondo quanto previsto nel dettaglio dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il documento che indicherà come e dove saranno allocate le risorse. Qui si inserisce la proposta di Il Giusto Mezzo, gruppo di donne della società civile, attive nel mondo del lavoro, in diversi settori e con competenze diversificate, che chiedono la distribuzione dei fondi del Recovery Fund sia effettuata rispettando la parità di genere, uno degli obiettivi trasversali del PNRR. “Nel testo oggi in discussione – si legge sul sito – non è prevista una missione specifica che predisponga azioni mirate volte a ottenere questo risultato”. Lo scopo della proposta è dunque quello di portare un contributo concreto, individuando e rafforzando una serie di azioni utili a incentivare il lavoro femminile, considerato il principale volano per ottenere la parità di genere. «Chiediamo un rafforzamento delle strutture di welfare, come gli asili nido e l’assistenza agli anziani, ma anche congedi di paternità obbligatori a cinque mesi, perché non c’è un motivo per cui i figli siano culturalmente in Italia solo per le donne, con forti impatti sull’accesso al mercato del lavoro», precisa la professoressa Rinaldi. «Immaginiamo che una azienda voglia assumere. Anche in totale buonafede, qualora avesse a disposizione due candidati ugualmente bravi, di cui uno va via per cinque mesi ogni gravidanza e una che va via per dieci giorni ogni gravidanza, chi assumerebbe? Per garantire una parità di possibilità di accesso al mercato del lavoro per le donne bisogna dunque insistere sul congedo di paternità obbligatorio». L’approccio che viene adottato è un approccio integrato, basato sulla diversity e sull’inclusività. «Combiniamo rivendicazioni di equità con una prospettiva di efficienza economica. Non è infatti necessario solo spendere i soldi del Recovery Fund, ma spenderli bene e in modo che abbiano un impatto moltiplicativo in termini di creazione di reddito ed occupazione, al massimo delle potenzialità. Altrimenti significa spendere male questa enorme cifra».
Ulteriore richiesta è che la task force destinata a ideare il PNRR sia composta per il 50% da donne. In Italia il genere femminile è poco rappresentato, in termini di governance pubblica e privata. Nel Parlamento italiano le donne rappresentano meno del 50% del totale, con il 35,7% alla Camera e il 34,4% al Senato. Secondo il rapporto Women in Business realizzato da Grant-Thornton, le posizioni CEO occupate dalle donne nel 2021 sono diminuite di cinque punti percentuali, passando dal 23% al 18% e collocando l’Italia al di sotto della media dell’Eurozona, pari al 21%. Non si tratta però solo di una questione di numeri. Senza modelli di riferimento, viene meno anche l’aspirazione per le nuove generazioni. «Purtroppo è un circolo vizioso e il patriarcato interiorizzato in noi ci porta a volte a cadere nella “sindrome dell’impostore”, cioè del timore di non essere brave abbastanza o capaci abbastanza per certi ruoli», conclude la professoressa Rinaldi. «Mi piace molto una cosa che dice sempre Nancy Pelosi, cioè che nella storia dell’essere umano non c’è una volta in cui chi detiene volontariamente il potere lo lascia. Il potere, dunque, bisogna andare a prenderselo».