«Il problema non è l’hijab. Il regime vuole distruggere la nostra anima perché siamo donne». «Nel mio Paese essere una donna libera equivale ad essere un pericoloso criminale». «Le donne non hanno più nulla da perdere, il regime ha tolto loro tutto». Shima Babaei, 28 anni, Masih Alinejad, 46 anni e Nahid Persson, 63 anni sono attiviste iraniane che vivono in esilio a Bruxelles, negli Stati Uniti e in Svezia. La loro voce è un prolungamento delle grida di tutte le iraniane, che dall’uccisione di Mahsa Amini scendono in piazza insieme agli uomini per protestare contro il regime di Khomeyni. Be my voice è infatti il titolo del documentario di Nahid, vincitore nel 2021 del festival di film d’inchiesta “Pordenone Docs” ed è stato proiettato al Teatro Franco Parenti nella Giornata Internazionale della donna.
«Essere una donna in Iran vuol dire trovarsi in un campo di battaglia tutti i giorni – racconta Shima –. Ogni mattina quando una donna sta per uscire indossa il vestito della guerra. Veniamo controllate se siamo vestite bene e obbligate a recitare gli slogan pro regime». Shima è fuggita dal suo Paese quattro anni fa, dopo essere stata arrestata per cinque volte e condannata a sei anni di prigione. «Sono stata una delle poche fortunate che in carcere non ha subito violenze e torture – ricorda l’attivista –. Pe poter andare ai servizi dovevano bendarmi e una volta mi hanno spinto a confessare davanti a una telecamera che venivo pagata da altri Paesi per protestare contro il regime. Una guardia donna mi ha ordinato di spogliarmi davanti a un gruppo di uomini. Io mi sono rifiutata e uno di loro mi ha insultata».Shima è diventata un’attivista all’età di 18 anni e la prima cosa che ha fatto è stata quella di «andare a parlare con i parenti dei giovani uccisi durante le manifestazioni». All’inizio ha preso parte alle proteste contro la pena di morte e poi ha partecipato alla campagna del “mercoledì bianco”, così chiamata perché «camminavamo per le strade con un velo bianco, che toglievamo e bruciavamo per manifestare contro l’hijab obbligatorio». L’attivismo è sempre stato presente nella famiglia di Shima: suo padre veniva spesso mandato in prigione per le sue azioni contro il regime, ma da 14 mesi nessuno sa che fine abbia fatto. Il governo non ha notizie su di lui e non dice neanche se possono trovarlo vivo o morto. Tante famiglie iraniane si trovano nella stessa situazione di Shima.
L’oppressione della Repubblica islamica viene percepita quotidianamente dalle attiviste che vivono in esilio all’estero. Protestare contro il regime di Khomeyni, anche in un Paese occidentale e democratico, vuol dire mettere in pericolo la propria famiglia ed essere costantemente minacciati. La regista Nahid Persson racconta questo aspetto nel documentario “Be my voice”, riprendendo i momenti in cui Masih scopre la cattura del fratello. La famiglia della giornalista e blogger iraniana decide quindi di interrompere i contatti con lei e di non rispondere più alle sue chiamate per non mettere in pericolo la vita di altri membri. «Quando Nahid è venuta a New York per girare il documentario, le ho detto che tutto quello che faccio non è una questione personale. In Iran milioni di donne stanno combattendo non solo contro l’obbligo di indossare l’hijab, ma contro un regime di apartheid di genere» spiega Masih. La regista iraniana Nahid ricorda bene quali erano le discriminazioni che subiva anche sul luogo di lavoro perché donna: «Quando ero una giornalista del notiziario di “Shiraz” era arrivata una circolare che proibiva alle donne di andare a lavorare senza il velo. Io e le mie colleghe ci consideravamo ragazze moderne e ci avevamo riso su, perché noi avevamo partecipato alla rivoluzione per ottenere gli stessi diritti degli uomini».
“Donna, vita, libertà!”: lo slogan delle manifestazioni iraniane e l’hijab tolto e bruciato dalle donne che scendono in piazza portano per Masih un messaggio chiaro: «Più di cinquecento uomini e donne sono stati uccisi nella rivoluzione di Mahsa Amini, 20mila manifestanti innocenti sono stati arrestati, 15 attivisti condannati a morte e cinque di loro sono stati impiccati. Più di mille studentesse sono state ricoverate in ospedale a causa degli attacchi chimici. Questa è la nostra richiesta per i Paesi mediorientali e occidentali: inserite la guardia rivoluzionaria iraniana nella lista delle organizzazioni terroristiche». La richiesta d’aiuto verso gli Stati democratici è un aspetto che condivide anche la regista Nahid: «La solidarietà che vediamo fa crescere la nostra speranza. Mi auguro che anche gli altri Paesi si uniscano a noi. Se non ci fosse stata speranza di libertà in Iran, non avrei nemmeno girato questo film. È molto importante fare capire agli Stati, che non basta dire di stare dalla parte del popolo iraniano, tagliarsi i capelli e urlare “Donna, vita, libertà!” per poi stringere la mano al regime».Quello che chiedono le attiviste insieme a Shima è di «essere portavoce delle donne iraniane e di divulgare il nostro messaggio ai vostri politici. Noi vinceremo e il mondo sarà un posto migliore senza il regime». Lo dice anche Masih nel documentario Be my voice, mentre si prende cura delle sue piante nella casa a New York: «Se ognuno di noi piantasse un fiore, il mondo diventerebbe un giardino».