Studia, lavora, dimettiti. Sembra essere questa la parabola di migliaia di donne italiane che ogni anno sono costrette a lasciare il posto di lavoro per dedicarsi a famiglia e figli. Il report dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro parla chiaro: nell’ultimo anno analizzato, il 2021, oltre 52mila persone hanno lasciato il posto di lavoro e di queste ben il 71% sono donne. Una condizione accomuna i lavoratori coinvolti: essere padri e madri con a carico figli sotto i tre anni.
Come mostra il grafico a barre molte di queste persone sono donne. Un numero in costante crescita, esclusa la parentesi del primo anno di pandemia. La fascia più coinvolta è proprio quella tra i 29 e i 44 anni, quando si esce dal nucleo familiare di origine – almeno in Italia – e si inizia a progettare un futuro autonomo. Inoltre, molte di queste lavoratrici devono fare in conti con contratti di lavoro part-time, perché sono costrette a dividere la giornata tra la gestione della famiglia e il lavoro. Le percentuali si ribaltano se analizziamo i contratti a tempo pieno: questi ultimi coinvolgono quasi il 70% di uomini, che si riducono al 30% se consideriamo chi lavora mezza giornata. «Il part-time sembra una soluzione per combinare lavoro e famiglia, ma è una segregazione – denuncia Paola Profeta, direttrice del Lab ricerca sull’uguaglianza di genere all’Università Bocconi di Milano -. Di fatto si guadagna di meno e non c’è la possibilità di fare carriera. Il part-time favorisce la ghettizzazione femminile perché è pagato meno e, quando c’è una riduzione dello stipendio, diventa automaticamente accettabile per le donne. C’è sempre l’idea che l’uomo debba guadagnare a pieno e che la donna sia il percettore di reddito addizionale».
Eppure, rispetto alla media europea delle settimane concesse come congedi di maternità e paternità, l’Italia non si posiziona agli ultimi posti. Il nostro Paese prevede quasi 22 settimane di congedo per le madri ma riserva ai padri appena dieci giorni. Numeri ben lontani da quelli previsti dal sistema spagnolo, che garantisce ai lavoratori uomini ben 12 settimane di congedo. Fanalino di coda è la Germania che non prevede alcun congedo di paternità, mentre riserva alle madri 12 settimane retribuite.
Numeri che non demoliscono completamente il sistema italiano dei congedi. Tuttavia i licenziamenti concentrati tra le lavoratrici testimoniano che qualche ingranaggio non funziona come dovrebbe. «In Italia questo problema è molto ampio e riguarda l’intero mercato del lavoro – spiega Paola Profeta -, tant’è vero che abbiamo in generale un tasso di occupazione femminile intorno al 50%, uno dei più bassi in Europa. Dietro di noi ci sono soltanto Grecia, Malta e Cipro. Occorre considerare il tema della maternità e quindi della possibilità di conciliare lavoro e famiglia. C’è quasi un incentivo a smettere di lavorare. Per penalizzazione materna intendo la riduzione del tasso di occupazione già dalla nascita del primo figlio. Il problema è che questa non è una cosa solo italiana, ma qui è un po’ più grave”.
«In Italia questo problema è molto ampio e riguarda l’intero mercato del lavoro – spiega Paola Profeta -, tant’è vero che abbiamo in generale un tasso di occupazione femminile intorno al 50%, uno dei più bassi in Europa. Dietro di noi ci sono soltanto Grecia, Malta e Cipro. Occorre considerare il tema della maternità e quindi della possibilità di conciliare lavoro e famiglia»
La particolarità della situazione italiana è che l’allontanamento dal posto di lavoro da parte delle donne diventa permanente. «Quando i figli diventano più grandi, queste donne non tornano sul mercato del lavoro e dunque, una volta uscite, la scelta è spesso definitiva. Questo è l’aspetto più grave. Invece, in altri Paesi ci sono degli aggiustamenti lungo la vita delle persone». A spingere molte lavoratrici a lasciare il posto di lavoro sono le esigenze di gestione della prole.
Tra i motivi principali che emergono dal report, al primo posto c’è la difficoltà a conciliare il lavoro con la cura dei figli piccoli. Gli asili sono sempre pochi ma, anche quando i posti si trovano, i costi sono troppo alti. Inoltre non tutte le famiglie possono contare sul sostegno dei parenti, a cominciare dai nonni. L’altra ragione è legata all’azienda dove si lavora: la maggior parte delle donne denuncia che le condizioni di lavoro non sempre sono conciliabili con la cura della famiglia. Spesso le lavoratrici devono fare i conti con la lontananza dal luogo di lavoro e con la mancata flessibilità sui turni mostrata dagli imprenditori. La questione riguarda il modo in cui viene percepita la maternità dalle aziende: «Spesso c’è un mancato accordo con le aziende. Mentre le grandi aziende seguono una politica generale sui congedi, hanno un approccio culturale alla maternità diverso perché sono abbastanza allineate con i paradigmi più internazionali, in Italia la maggioranza sono realtà medio-piccole che hanno ancora un’idea che la maternità sia in qualche modo un costo e quindi la scaricano sulla lavoratrice».
La maternità viene dunque vissuta come un problema, un obbligo imposto al datore di lavoro di riorganizzare il personale. «Considerato che abbiamo un tasso di natalità molto basso – sottolinea Paola Profeta – ogni azienda alla fine non èsi trova a gestire numeri di maternità esorbitanti. Le aziende la vedono non tanto come un costo in termini diretti, perché il congedo viene finanziato dell’Inps, ma in termini di organizzazione, di trovare un sostituto. Questo perché non sono abbastanza attrezzate per gestire questo tipo di situazione. A questo si aggiunge la carenza di asili nido, che è molto ampia del nostro Paese rispetto agli standard europei.»
Le difficoltà economiche legate al costo degli asili gravano soprattutto su determinate categorie di lavoratrici come le impiegate e le operaie. Sono queste ultime, infatti, a licenziarsi di più, perché non riescono a sopportare gli alti costi di cura della famiglia e sono costrette così a rinunciare alla prospettiva di far carriera.
«Le donne che lavorano – ricorda Profeta – sono quelle con un reddito un po’ più elevato e che si possono permettere degli aiuti per gestire la famiglia. Invece sono tagliate fuori quelle con i redditi più bassi, che non possono permettersi di pagare baby sitter o asili nido».
Alla radice di questo gender gap c’è il retaggio culturale per cui la donna tradizionalmente è vista come colei che si occupa della famiglia ed è così chiamata a fare delle scelte.
«I rapporti all’interno della famiglia sono molto sbilanciati e questo – sottolinea Profeta – non rimane all’interno della famiglia perché le donne, anche quando lavorano fuori casa, continuano a fare tutto il lavoro domestico, un lavoro che è stimato intorno alle dieci ore in più al giorno alla settimana rispetto agli uomini. Quello che troviamo sul mercato del lavoro è il risultato di ciò che succede all’interno della famiglia».
Alla radice di questo gender gap c’è il retaggio culturale per cui la donna tradizionalmente è vista come colei che si occupa della famiglia ed è così chiamata a fare delle scelte.
Questo è un problema complesso e radicato che può essere affrontato con gesti concreti: «Occorre incentivare i congedi. In Italia sono soltanto dieci giorni e pochi padri si prendono i congedi parentali, cioè quelli a scelta ma pagati il 30% in meno, perché c’è anche uno stigma per cui l’uomo in congedo suona strano, mentre in altri Paesi è normalissimo». La soluzione a questo modello lavorativo incasellato in determinati ruoli e fortemente legato al genere di appartenenza può essere lo smart working, che abbiamo sperimentato durante il lockdown e che è ancora proposto da molte aziende. Si tratta di una forma di lavoro ibrida che non prevede riduzioni né di stipendio né di orari di lavoro, con una declinazione neutrale e per questo si può adattare allo stesso modo sia ai lavoratori che alle lavoratrici.
«Si stanno sperimentando nuove forme di organizzazione del lavoro flessibile, a cominciare dal lavoro da casa – conclude Profeta – ed è vantaggioso perché è a stipendio pieno e vale sia per uomini che per donne. Potrebbe favorire un ribilanciamento all’interno della famiglia: siamo tutti a casa e in qualche modo c’è una neutralità». La strada da percorrere è ancora molta ma bisogna pur partire, per far seguire alle lavoratrici del futuro altre parabole, ben più gratificanti.