«Parlando con mia figlia di 16 anni le dicevo: quando avrai 21 anni ti regalerò il social freezing, così almeno non ci pensi più, ti fai la tua vita e quando vorrai avere una gravidanza, se non ti dovesse venire naturalmente, gli ovuli ce li ha già lì». Con queste parole sui social, la modella e influencer Bianca Balti ha riacceso il dibattito sul tema della crioconservazione degli ovociti, ancora oggi molto discusso.

«Si tratta di un procedimento di prelievo e congelamento di ovociti maturi che permette di mantenerne la qualità, per poterli utilizzare in futuro e tentare una gravidanza con le stesse probabilità del momento dell’aspirazione», spiega Cristina Pozzobon, ginecologa e direttrice del centro IVI di Milano. Si tratta di una pratica sempre più comune e a cui moltissime donne hanno scelto di avere accesso, solitamente in forma preventiva. Laura Rienzi, embriologa e direttore scientifico di Genera Centers for Reproductive Medicine ne illustra le opportunità: «Congelare le uova “allunga” la finestra riproduttiva della donna perché, mentre con il passare dell’età gli ovuli cambiano qualità genetica, l’utero può restare accogliente anche oltre i quarant’anni, anche se ovviamente il rischio ostetrico è diverso e più elevato».

In cosa consiste la criconservazione degli ovociti? Prima di avviare il trattamento, la donna viene per prima cosa sottoposta a prelievi del sangue ed ecografie, che di solito vengono svolti ogni 48/72 ore, per una quindicina di giorni. Poi, inizia la fase di  stimolazione ovarica, che avviene tramite delle iniezioni sottocutanee di farmaci ormonali, identici a quelli naturali, allo scopo di far crescere, invece che un unico follicolo naturale, più follicoli: nei primi giorni, la terapia è a schema fisso, poi la dose viene individualizzata a seconda dei risultati degli esami a cui la paziente viene continuamente sottoposta.

La crioconservazione degli ovuli è una pratica che, tramite la stimolazine ovarica, il prelievo chirurgico e la conservazione e il congelamento degli ovuli, permette alle donne di mantenere delle riserve di gameti nel caso di una gravidanza tardiva

Segue la fase del prelievo ovocitario: «Si tratta di un intervento chirurgico minimamente invasivo, che dura una decina di minuti e viene svolto in sedazione, per cui il successivo recupero della donna è molto veloce», commenta la dottoressa Pozzobon. Nello specifico, la chirurgia permette di aspirare ovociti attraverso un ago coassiale a sonda ecografica, che viene condotto sino alle ovaie della paziente.

Una volta estratti gli ovuli, si effettua un controllo della loro qualità per scegliere quelli idonei alla crioconservazione: come spiega la dottoressa Rienzi, prima di tutto si utilizzano degli enzimi per rompere i legami tra le cellule, e si pulisce l’uovo tramite delle pipette. Poi, una volta scelti gli ovociti maturi, si usano dei crioprotettori per togliere l’acqua dal citoplasma delle cellule, che vengono immediatamente messe a contatto con l’azoto liquido, la materia più fredda che si usa in laboratorio. Questa sostanza ferma ogni tipo di reazione chimica e di degenerazione e consente quindi agli ovociti di passare dalla fase solida direttamente a quella vitrificazione, uno stato che può durare per un tempo potenzialmente infinito

«Come tutti gli atti chirurgici, non è a rischio zero: complicanze si verificano raramente, circa un caso 1500/2000 operazioni, ma possono richiedere persino un’ospedalizzazione di qualche giorno o un’intervento chiurugico riparativo» osserva Luca Gianaroli, dottore specializzato in ginecologia e ostetricia e direttore della SISMer, Società Italiana di Studi di Medicina della Riproduzione. Per quanto riguarda i farmaci a base di ormoni, non vi sono rischi a lungo termine di aumento di insorgenza di malattie, ma solo possibili conseguenze immediate. «Come tutti i farmaci possono funzionare poco, ossia non raggiungere il loro scopo, o funzionare troppo, dando adito a un’“iperstimolazione” non richiesta di tutte le funzioni; ma in linea di massima questi sintomi spariscono in pochi giorni», spiega il dottor Gianaroli.

Fonte: Agimedica.it

Fonte: Agimedica.it

Del resto, la crioconservazione ovocitaria, che è stata inizialmente sperimentata dagli Stati Uniti e dai Paesi scandinavi, è una pratica consolidata da una quindicina di anni.

Oggi sempre più donne vi ricorrono, come spiega la dottoressa Pozzobon, ma non c’è ancora  un monitoraggio ufficiale dei dati: «In Italia, soprattutto dopo il Covid, si parla di circa 6mila cicli annui e nei centri IVI abbiamo avuto un boom di richieste, più di 3mila, da parte di donne che intendono svolgerla in via precauzionale per assicurarsi una garanzia per un’eventuale futuro».

Tuttavia, se da una parte c’è stata una crescita della pratica, il problema della scarsa natalità persiste: «Il gap che esiste tra la volontà iniziale di avere una gravidanza e i numeri effettivi di nascite è comunque altissimo: anche se c’è stato un aumento consistente, non è abbastanza», commenta il Dottor Gianaroli. I fattori che incidono su questa insufficienza sono molteplici: «Da un lato, l’informazione è ancora frammentaria; dall’altro lato la pratica non è coperta dal sistema sanitario nazionale, per cui il ricorso a queste tecniche resta ad appannaggio del ceto sociale medio-alto».

Inoltre, osserva Gianaroli, «non c’è alcuna garanzia di successo dell’operazione perché entrano in gioco una serie di fattori, tra cui la qualità del liquido seminale del partner o la quantità di ovociti che la specifica paziente è riuscita a produrre: per queste ragioni si può decidere di effettuare più di un prelievo per aumentare le chance di riuscire ad avere una gravidanza nel momento in cui lo si desidererà».

I DIRITTI RIPRODUTTIVI

Bisogna distinguere due tipologie di pratica, di cui soltanto la prima è coperta dal servizio sanitario nazionale: quella svolta per motivazioni cliniche o patologiche e il cosiddetto “social freezing”. La prima avviene in presenza di condizioni cliniche e patologiche che portano a un esaurimento della riserva follicolare, come malattie gonado-tossiche che mettono a rischio la propria funzionalità ovarica o la sottoposizione a cicli di chemioterapia o radioterapia. La seconda è a scopo autologo, quando una donna decide cautelativamente di conservare i propri ovociti per sua volontà, il che dovrebbe idealmente avvenire i 28 e i 33 anni: si tratta di una sorta di “paracadute” che la paziente vuole assicurarsi. Ciò consente di avere a disposizione il proprio patrimonio genetico in qualunque momento e garantisce la possibilità di avere figli potenzialmente a qualunque età.

Come detto, il sistema sanitario italiano, però, sostiene economicamente la crioconservazione soltanto nella prima ipotesi. «In Francia viene supportata dal sistema sanitario nazionale, mentre da noi attualmente è ancora una pratica attuabile solo privatamente – spiega il dottor Massimo Candiani del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia di Medicina della riproduzione dell’Ospedale San Raffaele di Milano.- Anche se una recente delibera della Regione Lombardia di fine 2023 ha aperto la possibilità di un sussidio da parte della Regione nel sostenere questo tipo di campagna e di pratica negli ospedali, in modo tale che non sia più una spesa totalmente a carico della donna». 

Le donne che scelgono di ricorrere al social freezing tendenzialmente devono sostenere dei costi che oscillano tra i 2500 e i 5000 euro, a cui devono aggiungersi le spese per il mantenimento degli ovociti congelati, che di solito sono di qualche centinaia di euro all’anno.

Tuttavia, ci sono delle realtà che si battono per ampliare l’accessibilità della pratica a chi decide di ricorrervi per libera scelta. Ne è un esempio l’Associazione Luca Coscioni: «In passato abbiamo presentato anche delle proposte ai parlamentari affinché anche nel nostro Paese fosse prevista la crioconservazione dei gameti per la preservazione della fertilità», racconta l’avvocata Filomena Gallo, segretario nazionale dell’associazione. E commenta: «Bianca Balti ha posto un problema: nei livelli essenziali di assistenza non puoi preservare la tua fertilità, se non sei a rischio di infertilità, sterilità oppure malato oncologico: invece, dovrebbe essere una garanzia per tutte le donne».

Del resto, la crioconservazione dei gameti tutela il patrimonio di fertilità della donna, con la garanzia che solo lei può usufruirne, perché la legge 40/2004 considera il materiale genetico ricavato dal corpo di una paziente e conservato come una sua proprietà esclusiva, a meno che non vi rinunci e decida di donarlo a terzi o alla ricerca. «La legge italiana dispone che ci sia un consenso firmato e rinnovato ogni anno e che i gameti non possano essere utilizzati in caso di decesso della donna, perché la fecondazione post mortem è vietata nel nostro Paese, essendo i gameti un bene strettamente personale. «Tutto ciò che si stacca dal nostro corpo è soggetto a una proprietà immateriale – commenta l’avvocato Gallo -. C’è un’attribuzione personale».

LA STORIA DI MARINA

«A febbraio 2018 scopro di avere un tumore al seno». Con queste parole Marina Ferrante inizia a raccontare la sua storia. Al tempo era sposata da poco. «Ero molto giovane e la chemioterapia poteva portarmi a una riduzione importante  della fertilità». Di solito, nelle cure oncologiche, le donne vengono indotte farmacologicamente alla menopausa precoce per mettere a riposo le ovaie, ma molto spesso ciò non basta per preservarne la fertilità. Tra vari cicli di chemioterapia, un intervento chirurgico di rimozione del seno e un altro di ricostruzione, Marina, in accordo col suo oncologo, decide di optare per la crioconservazione dei suoi ovociti. 

«La stimolazione ovarica mi ha provocato forti dolori addominali,: mi sono riempita d’acqua»: questa è una conseguenza probabile, dice Marina. «Non è stato un percorso facile, sia dal punto di vista fisico che psicologico», confessa, ma ammette anche che diventare genitore era uno dei suoi sogni nel cassetto e per questo era determinata a portare avanti la pratica di crioconservazione. «Ho fatto venti giorni di punture sulla pancia: erano dolorosissime – spiega Marina -. Poi, finalmente siamo riusciti a conservare 14 ovociti che attualmente si trovano al centro Sant’Anna di Torino». Aggiunge: «Sono ancora lì, congelati». Marina, infatti, nel frattempo è diventata mamma, ma in maniera naturale: «Mi ero arresa: avevo prenotato la PMA (procreazione medicalmente assistita, ndr), ma pochi giorni prima dell’appuntamento ho scoperto di essere incinta». Continua, però, tuttora a conservare i suoi ovuli, consapevole che il protrarsi delle cure potrebbe rendere impossibile una nuova gravidanza naturale, per non precludersi la possibilità di avere un secondo figlio in futuro, qualora lo desiderasse.

LA STORIA DI LOREDANA

Fonte: oneofmany.it

Fonte: oneofmany.it

Quanto sia ancora lunga la strada da percorrere per rendere la crioconservazione una pratica sufficientemente nota lo dimostra poi la storia di Loredana Vanini. A 34 anni, a causa di un ciclo mestruale irregolare, Loredana ha effettuato degli accertamenti e ha scoperto di essere affetta da una infertilità precoce, che la ha portata ad avere una riserva ovarica decisamente troppo bassa. «Se a 18 o 20 anni avessi saputo che esisteva la possibilità di crioconservare i propri ovuli, lo avrei sicuramente fatto, per essere libera in tutte le mie scelte di vita, di studio, di carriera, di viaggi – osserva Loredana -. Infatti, magari a 40 anni un figlio non lo vuoi, ma a 45 sì, e il fatto di poter utilizzare i tuoi gameti di vent’anni prima ti consente di risparmiare delusioni, attese, pianti, ormoni e soldi».

Loredana Vanini è una sostenitrice della pratica: «Il fatto di poter utilizzare i propri gameti di vent’anni prima ti consente di risparmiare delusioni, attese, pianti, ormoni e soldi»

Loredana ha quindi dovuto inevitabilmente ricorrere alla via della fecondazione eterologa: un percorso difficile che l’ha però portata a diventare mamma. «La prima volta che mi hanno parlato di fecondazione eterologa mi sembrava una cosa non etica e sono stata malissimo, anche perchè il dottore mi aveva detto di non raccontarlo a nessuno, soprattutto a un eventuale figlio, perchè una volta cresciuto avrebbe potuto recriminarmi di non essere la sua vera madre». Racconta: «Ho capito cosa si intende quando si parla di lutto biologico, perché è questo che provi nel momento in cui capisci che la persona che sarà la più importante della tua vita non potrà mai avere il tuo dna, ma poi ci ho riflettuto e ho pensato che ci si innamora dell’anima di una persona, non del suo dna».

Dalla storia di Loredana traspare la sofferenza di essersi trovata e sentita sola nell’affrontare un argomento pieno di incognite e considerato ancora un tabù. «Ho quindi iniziato a desiderare di realizzare Unadelletante, una raccolta di ritratti di tante donne a cui era stata diagnosticata l’infertilità, per comunicare tranquillità, serenità e supporto a chi si trovasse in questa situazione». Questo progetto si è rafforzato ancor di più con il lockdown, quando Loredana ha iniziato a fare dirette Instagram su queste tematiche, per condividere esperienze e fare divulgazione.

E’ nato così Oneofmany, un movimento che, con il contributo di medici e professionisti, vuole normalizzare il tema dell’infertilità e aiutare chi si approccia al mondo della PMA a orientarsi, nel tentativo di non far sentire nessuno solo e inadeguato.
«Parlo anche di crioconservazione perchè, anche se le donne che mi seguono tendenzialmente sono persone a cui è già arrivata una diagnosi negativa, è importante che loro capiscano che ne devono parlare alle ragazze più giovani, affinché conoscano questa possibilità, che consente di farsi un regalo bellissimo».