Più di sei ore di camminata, oltre diecimila partecipanti secondo gli organizzatori. Qualcuno canta “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, la canzone anti-guerra di Gianni Morandi, qualcun altro solleva cartelli e striscioni per gridare una richiesta di cessate il fuoco. La marcia della pace e della fraternità “Perugia Assisi” di quest’anno ha visto sfilare tra i due Comuni umbri persone di tutte le età – ma soprattutto scolaresche – in nome della pace, e quindi della conclusione della guerra in Ucraina. Tra gli aderenti molte associazioni e ong che da anni partecipano a questa marcia, la lista è lunga, da ResQ a Europe for Peace, passando per la CGIL e Slow Food e arrivando al mondo cattolico. L’appello della marcia recita: «Lo “schema della guerra” in cui siamo stati trascinati sta diventando un incubo. Per questo, ancora una volta, chiediamo alla “buona politica” di raccogliere l’appello di papa Francesco e di fare tutto ciò che è in suo potere per ottenere l’immediato cessate-il-fuoco». Dunque, in strada c’era chi abbraccia la linea vaticana, una parte consistente della rete pacifista italiana.

 

Gli appelli alla pace

Il mondo pacifista in Italia è piuttosto eterogeneo e di difficile segmentazione, ma un modo per cercare comprenderlo è analizzare i tre principali appelli per la pace firmati in questi mesi. Partiamo dal primo, intitolato “Fermare la guerra e imporre la pace”. Si tratta di un appello promosso da docenti, scienziati, politici e anche esponenti del mondo cattolico con un principio di fondo, come si legge nel testo: «È il momento per esigere da tutte le parti un immediato cessate il fuoco e l’avvio di trattative di pace senza pregiudizi». Ciò che emerge da questo appello, però, è che non c’è nessuna condanna dell’aggressione russa e i due “contendenti” – così vengono definite Russia e Ucraina – vengono quindi messi sullo stesso piano. Non è un caso che a sostenere questo appello ci siano forze politiche come Potere al Popolo e Rifondazione Comunista, che dallo scoppio della guerra hanno abbracciato la posizione-slogan “Né con Putin, né con la NATO”. Una posizione di equidistanza nata sin dai primi giorni del conflitto che denuncia la guerra in tutte le sue forme, ma che connota una forte posizione anti-atlantista (e “anti-imperialista”). Questo appello fa affidamento alla mediazione di Cina e Vaticano, perché, secondo i firmatari, sono gli unici che possono portare alla cessazione della guerra tramite le loro proposte di negoziato.

Il secondo appello ha fatto più discutere per la sua eco mediatica. E’ stato promosso dal giornalista Michele Santoro , si chiama “Appello ai cittadini, alla società civile e ai leader politici”, e ha raccolto molte adesioni tra nomi noti di politici, accademici, personaggi dello spettacolo come Alessandro Barbero, Carlo Rovelli, Moni Ovadia, Mimmo Lucano, Fiorella Mannoia. Nel testo non c’è una equidistanza ma, potremmo dire, una “equi-condanna”: «Putin è il responsabile dell’invasione ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti a difendersi, contribuisce all’escalation e trasforma un conflitto locale in una guerra mondiale strisciante». Poi, prosegue sostenendo che l’Italia deve «manifestare in ogni modo la sua solidarietà al popolo ucraino abbandonando, però, qualunque partecipazione alle operazioni belliche», facendo emergere la scelta del no all’invio di armi.

Michele Santoro, foto di Paolo Benegiamo (via Flickr)

Michele Santoro, foto di Paolo Benegiamo (via Flickr)

L’ultimo appello è firmato da Europe for Peace, Mozione per la Pace in Ucraina e il Disarmo Nucleare” e potrebbe essere definito il testo “ufficiale” della Marcia della Pace. Dopo la condanna iniziale all’aggressione russa, il comunicato recita: «Sempre da più parti, in Italia come in Europa, seguendo l’esempio che da mesi caratterizza l’impegno di Papa Francesco, sorgono continui appelli alla pace, alla necessità di fermare la guerra e a fare tutto il possibile per scongiurare un conflitto nucleare dalle proporzioni inimmaginabili per la sopravvivenza stessa dell’umanità». Quindi, anche qui emerge la linea papista del perseguire la pace evitando una escalation che, secondo i promotori, sarebbe causata dall’invio di armi e che potrebbe trasformare il conflitto in una guerra nucleare.

Questa linea è stata sposata da corpi intermedi del movimento come CGIL e Legambiente che hanno aderito all’appello di Europe for Peace e da anni partecipano alla marcia “Perugia-Assisi”. «Lo slogan “no alle armi” è riduttivo – dice Sergio Bassoli, responsabile CGIL dei rapporti con la rete per la pace -. Il senso è che armare la guerra porta ad un’escalation che produce vittime, sofferenze e morti. Oltretutto, siamo dentro una guerra tra due potenze nucleari, quindi si alza il rischio di uno scontro nucleare». Il principale sindacato italiano ha sfilato durante la marcia con uno striscione che recitava “La pace è l’unica vittoria”: poche parole per riassumere l’idea che l’unica soluzione per porre fine alla guerra sia la via diplomatica. «La priorità assoluta – continua Bassoli – deve essere la tutela della vita delle persone. Fermare la guerra deve essere un impegno accompagnato dall’azione politica, in particolare da parte di chi ha la forza di farlo, primi fra tutti Stati Uniti e Cina». Ma in questo dialogo deve esserci pure l’Europa: «Riteniamo politicamente sbagliata l’assenza di politica da parte dell’Unione Europea, succube delle decisioni che vengono prese dal principale partner dell’alleanza atlantica, cioè dagli Usa. Come Unione abbiamo deciso di non essere una parte terza nel negoziato». E chi accusa la CGIL di essere filorussa, Bassoli risponde così: “Questa è una campagna di screditamento delle voci di chi si oppone alla logica della guerra. Sin dall’inizio abbiamo denunciato l’aggressione russa e Putin perché l’invasione dell’Ucraina viola senza dubbio il diritto internazionale. Come sindacato abbiamo organizzato una campagna di solidarietà a favore della popolazione ucraina e con i fondi raccolti abbiamo inviato almeno sette tir di aiuti umanitari”.

Anche Legambiente abbraccia le tesi del sindacato. La vicepresidente Vanessa Pallucchi spiega perché anche un’associazione ambientalista si impegna in questa campagna contro la guerra: «Le associazioni si raggruppano anche intorno a dei valori universali di pacifismo. In particolare, la questione ambientale è molto legata alla pace a causa dell’interdipendenza profonda che c’è tra risorse energetiche e i luoghi dove si contendono i territori: ad esempio, la guerra per il controllo dell’acqua tra Israele e Palestina». Le preoccupazioni di Pallucchi e di Legambiente sono molto legate alle conseguenze che i conflitti hanno sui territori colpiti: «In quanto ambientalisti questa guerra ci preoccupa per due motivi: da un lato per la minaccia nucleare, poiché noi siamo anche antinuclearisti; dall’altro perché abbiamo fatto un dossier sull’inquinamento che sta generando questa guerra, sia dal punto delle emissioni di gas serra che dal fatto che ci vorranno almeno cinquant’anni per bonificare le acque e i terreni ucraini». Inoltre, l’associazione condanna da anni la scelta delle istituzioni italiane di finanziare il settore militare a scapito di altre voci di spesa: «Facciamo parte anche del network di Sbilanciamoci, che ogni anno fa una valutazione di come vengono spesi i fondi e spesso emerge che si investe sugli armamenti tagliando soldi per scuola e sanità».

 

 

 

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Vale più il sangue di un pollo del sangue di un indios

La corsa agli armamenti, soprattutto nel contesto mondiale in cui navighiamo, è una scelta sempre più frequente. La storia del nostro Paese è, di fatto, costellata da gruppi fortemente antimilitaristi e che seguono l’ideale della pace. Questi gruppi si oppongono alla guerra, alla militarizzazione e alla presenza delle forze armate nel Paese. Promuovono quindi il disarmo, la non violenza e l’eliminazione delle armi nucleari. Tutto quello che in Costituzione è riassunto dall’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.  L’antimilitarismo in Italia è un movimento variegato e inclusivo che cerca di promuovere una cultura di pace e di risoluzione dei conflitti senza ricorrere alla violenza.  In tema di disarmo, c’è chi li taccia di utopismo, se si pensa che tutti i Paesi del mondo hanno degli eserciti e trentuno di questi aderiscono all’alleanza militare della Nato. E’ ovvio che ogni singolo Paese tra i trentuno abbia impianti di telecomunicazioni, basi militari e poligoni dove si sperimentano nuovi metodi di distruzione. “L’Italia, che dovrebbe ospitare la dolce vita, viene presa d’assalto, senza ma e senza se, da eserciti di altre nazionalità. Sotto un lauto compenso”. Così si esprime Mariella Cao, portavoce del movimento Gettiamo le Basi – Sardegna, uno dei gruppi che si oppone all’occupazione militare nell’isola. “La Sardegna è una terra sconfinata, bagnata dallo stesso mare e destinata ad un destino atroce”, continua Mariella. In Sardegna c’è la più alta concentrazione di basi militari d’Italia: essa comprende il 64% delle servitù, dei poligoni e del demanio territoriale Nato. Numericamente, l’isola può essere riassunta csì: un milione di abitanti, cinque province, centinaia di siti archeologici e 31 basi militari. 

Di fatto, la terra sarda ospita due delle più grandi basi militari d’Europa: Salto di Quirra, nel Sud-Est, e Capo Teulada, nel Sud-Ovest. La prima è una base sperimentale: le attività in essa vengon eseguite sia su terra che sul mare e viene utilizzata come sito di addestramento della Nato, dalle Forze Armate italiane e da eserciti di altri Paesi, tra cui l’Iraq e la Libia. “Il poligono di Quirra è una ferita nel territorio di circa duecento chilometri quadrati, uno spazio geografico all’interno del quale sono presenti una decina di comuni della provincia di Cagliari e di Nuoro, nel tempo sottoposti all’esproprio di terreni e case”, continua Mariella che da anni spiega al pubblico cosa sia la cosiddetta “Sindrome di Quirra”.  Si tratta di una patologia che colpisce gli abitanti della zona generando, tra uomini e animali, aborti, leucemie e malformazioni. Ma le ricerche in merito si sono sempre fermate e sono rimaste incomplete. Così, per questi fenomeni non c’è ancora una risposta né un colpevole. Di certo si può affermare che i poligoni sono un caso esemplare per comprendere in profondità le conseguenze sull’ambiente di attività militari sperimentali.

La comunità locale convive con l’ingombrante presenza di attività che hanno lasciato un profondo segno nel territorio. Residuati bellici abbandonati, munizioni ed armi incustodite sul terreno contraddistinguono un paesaggio già compromesso. Mariella Cao lo sa bene: “Da ragazzina stentavo a credere che tutto questo fosse vero: quando mi raccontarono dei primi aborti, quando vidi i miei coetanei e i miei professori morire di leucemia non potevo credere al collegamento con la base militare. Vedevo solo una grande distesa di reti, talvolta fatte anche male. Ma ciò che mi si presentò davanti agli occhi dopo pochi anni è ancora troppo grande da sopportare. Mi resi conto – e qui è doveroso prendere in prestito una frase degli Indios del Centro America – che vale più il sangue di un pollo del sangue dei sardi. Vale più la sperimentazione che la vita dei cittadini”. La portavoce di Gettiamo le Basi lancia il suo grido a nome della cittadinanza sarda:  si riferisce a tutte quelle madri senza figli e a tutti quei figli senza più un padre che hanno ricevuto una sentenza di morte dalla scienza. I loro mali sono stati causati da “nanoparticelle date dall’alta temperatura delle esplosioni belliche”.  Ma Mariella non ci sta ad essere definita pacifista. Al sentire l’aggettivo, salta su come una mina e, con un sorriso, esclama: “Anche Hitler si dichiarava apertamente pacifista! La ritengo una parola troppo ambigua. Non puoi ritenerti pacifista e sostenere la Nato come strumento di protezione. Non puoi ritenerti pacifista e sperare che le armi mandate al presidente ucraino siano sufficienti. Io sono contro l’occupazione dei militari e favorevole al disarmo mondiale. Ma non voglio etichette. Voglio solo fatti concreti.”. 

Come la Sardegna, sede di investimenti militari ad altissimo impatto, a fronte di un territorio con pochi servizi ai cittadini, c’è la Sicilia. Ad oggi, la terra sicula è una delle regioni italiane con il più basso tasso di investimenti infrastrutturali e con uno dei più alti tassi di disoccupazione.  La sua posizione strategica nel Mediterraneo, che comprende uno spazio marittimo vastissimo e incontaminato, ha permesso nel 1991 la costruzione della Base di Niscemi: la Naval Radio Transmitter Facility (NRTF), il distaccamento radio e di telecomunicazione del Naval Air Station Sigonella (NAS Sigonella), che si trova a Lentini – provincia di Siracusa – a circa 50 chilometri di distanza. Il tutto è gestito dalla Nato e dalla United State Navy, la Marina Militare degli Stati Uniti. Nel 2008 iniziano i lavori per estendere questa base con l’obiettivo di incorporare il MUOS (Mobile User Objective System): un sistema di telecomunicazione satellitare formato da quattro basi terrestri: Niscemi, Virginia, Hawaii e Australia Occidentale. Ma anche in questo caso, “la salute e il benessere dei cittadini di Niscemi vengono messe a repentaglio”. Lo affermo Pippo Gurrieri, portavoce di No Muos, gruppo della società civile siciliana contro l’opera di telecomunicazione avanzata della Nato. In effetti, con la costruzione di questa struttura – in accordo con il Ministero della Difesa Italiano – si è andati inesorabilmente ad invadere la Riserva Naturale Orientata della Sughereta e quindi “a infrangere delle norme europee e nazionali attualmente vigenti che regolano i campi elettromagnetici.”, continua Gurrieri.

“L’invasione” del terreno niscemese da parte del governo americano non ha spaventato la popolazione e i numerosi siciliani che, per tutta risposta, hanno dato vita al movimento ambientalista e antimilitarista cui Pippo Gurrieri fa da portavoce: il “NoMuos”. La lotta degli attivisti si è conclusa con una prima sconfitta: la Corte di Cassazione ha reso definitiva la decisione del Tribunale sul dissequestro dell’impianto. Di fatto, gli Stati Uniti d’America vincono contro i siciliani. Anche qui siamo di fronte a un caso-scuola. “Dopo quindici anni, nonostante il continuo supporto della scienza che dimostra l’aumento nella zona di tumori e aborti, non è stato ancora possibile fermare l’impianto. “Non siamo riusciti a fermarli ma, noi di NoMuos, abbiamo dimostrato, con le nostre proteste, che possiamo ritardare le loro attività. Questo ci spinge a non arrenderci mai – continua Gurrieri -. Di fatto l’associazione ora non è esclusivamente locale ma è regionale. Il valore che muove NoMuos è condiviso da tutti i cittadini: siamo contro la militarizzazione della Sicilia.”. Si tratta di un valore ben preciso che si rispecchia nella condizione dell’isolano, di un popolo di migranti e precari: “La terra siciliana è stata designata ad assolvere altre funzioni che non dignificano i sui cittadini: così non possiamo progettare il nostro futuro e il nostro presente in piena volontà”, racconta il portavoce. Anche lui prende le distanze dalla parola pacifismo, un concetto ritenuto troppo vago: “Nella nostra strada abbiamo incontrato troppi pacifisti che sì, sono a favore della pace e riconoscono che è l’opposto della guerra, ma ne sostengono l’azienda guerrafondaia. Abbiamo incontrato troppi pacifisti che volevano tranquillizzarci sul metodo difensivo delle basi. C’è un concetto di pace malato. Noi preferiamo definirci oppositori alla guerra perché il nostro concetto di pace si sposa con l’assenza di armi, di strutture militari e dunque di potenziale di distruzione. Noi vogliamo essere un ponte di pace fra i popoli.”, conclude Pippo Gurrieri. 

Dopo la fine dei bombardamenti sull’Iraq, nel 1991, in Italia nasce un’associazione che si chiama proprio Un Ponte per Baghdad. Inizialmente questo gruppo si organizza con raccolte fondi e aiuti umanitari per la popolazione colpita dalla guerra. Poi, l’intervento dell’organizzazione si estende ad altri Paesi del Medio Oriente, alla Serbia e al Kosovo. Paesi instabili dal punto di vista politico e a rischio di conflitti sempre più feroci. Il gruppo parte dall’assunto di padre Ernesto Balducci: “tentare di intervenire con atti di solidarietà tra popolo e popolo, contribuendo a colmare il baratro che la guerra ha scavato”. Fabio Alberti, portavoce di “Un Ponte Per”, ci racconta che questo principio è vivo e vegeto: “Lo scopo dell’associazione, ad oggi, è prevenire i conflitti armati e violenti attraverso scambi culturali, progetti di cooperazione e costruzione di reti – si spera il più fitte possibile – per la giustizia sociale.”. “L’associazione unisce in sé due o tre popoli fatti diventare nemici dai loro governi. Non per loro scelta nemici ma per loro scelta vicini.”, continua Fabio. Proprio per questo motivo, Un Ponte Per ripudia la guerra come strumento di risoluzione di controversie nazionali e internazionali. “I diritti umani sono centrali nella nostra associazione insieme al concreto sostegno a chi promuove e protegge le libertà fondamentali”, continua Alberti, sottolineando che gli interventi del gruppo di cui è portavoce rafforzano i legami tra la società civile in Italia, in Europa e nei Paesi terzi. Per Alberti esistono due concezioni diverse di pace: una utopica, collegata alla giustizia sociale, e una obiettiva, dove si prendono in considerazione concretamente le richieste dell’altro. Di certo, ci vuole una pace che lavori di pari passo con la giustizia.   

 

Legami politici

Parallelamente alle questioni legate al pacifismo c’è la galassia dei cosiddetti “filorussi” e “filoputin”. L’Italia e la Russia hanno una storia secolare di legami politici, grazie alla relazione tra il PCI e le istituzioni sovietiche fino allo strappo berlingueriano, e commerciali, iniziate ufficialmente nel 1960. Stando al report dell’Istituto Affari Internazionali, in quell’anno «l’Ente nazionale idrocarburi (Eni) firmava il primo grande contratto di forniture petrolifere con il governo sovietico. Il contratto dell’Eni, di grande valenza storica, fu seguito da altri importanti accordi commerciali sottoscritti da Pirelli, Fiat, Montecatini, Snia Viscosa, Olivetti, Chatillon, e ancora Eni (sul fronte gas)». Ma i rapporti accelerano soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, in particolare grazie al rapporto personale di amicizia instaurato tra Vladimir Putin e Silvio Berlusconi, legame che ha portato l’Italia nei primi anni Duemila a continuare «a insistere sulla linea del dialogo con Mosca anche quando le relazioni con l’Occidente hanno cominciato a incrinarsi», ad esempio nei momenti di ostilità che Putin ha dimostrato nei confronti dell’adesione alla Nato di alcuni Paesi dell’ex blocco sovietico. Questo rapporto istituzionale-diplomatico, però, ha cominciato ad incrinarsi dopo l’invasione russa della Crimea nel 2014, azione condannata dall’Italia e dall’Unione Europea e che ha portato all’approvazione di pacchetti di sanzioni nei confronti del Cremlino. Ma, nel frattempo, si erano già create profonde relazioni tra la Russia e i partiti italiani, in particolare con quelli di destra. 

Silvio Berlusconi e Vladimir Putin in Crimea nel 2015 (via sito del Cremlino)

Silvio Berlusconi e Vladimir Putin in Crimea nel 2015 (via sito del Cremlino)

Dall’invasione dell’Ucraina, queste forze politiche si sono spesso ritrovate in situazioni di imbarazzo, perché nel loro tentativo di dissociarsi dalle azioni di Putin si sono visti rinfacciare il loro sostegno al presidente russo degli ultimi anni. Per primo Matteo Salvini che, nel 2014, si faceva fotografare nella Piazza Rossa di Mosca con una maglietta con un disegno di Putin, poi con una t-shirt simile all’Europarlamento e un’altra ancora con una scritta contro le sanzioni alla Russia dopo l’invasione della Crimea: i rapporti tra la Lega di Matteo Salvini e la Russia sono ancora opachi. Queste sue posizioni gli si sono ritorte contro da quando è iniziata la guerra, con avversari politici che gli hanno fatto pesare le sue parole nei confronti di Putin (ad esempio “cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin”) ma anche oltre confine come quando, nel marzo scorso, Wojciech Bakun, sindaco di Przemys, lo ha “accolto” sventolando la maglietta che Salvini indossò nella Piazza Rossa. Inoltre, nelle mani della magistratura c’è stato il caso Metropol, un’indagine su una presunta corruzione internazionale: stando ad alcuni audio, è emerso che il 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca si sarebbero incontrate tre persone vicine a Salvini con tre uomini russi, per discutere di come trasformare un accordo commerciale in finanziamenti occulti alla Lega. Il caso è stato archiviato perché – seppur dalle indagini sia stato accertato che ci fosse il fine di ottenere ingenti somme per finanziare il partito – non è stato possibile individuare un funzionario russo come destinatario di parte delle tangenti, requisito fondamentale perché si prefigurasse il reato di corruzione internazionale. 

Sul già citato Berlusconi la questione è ancora più opaca. Prima la condanna dell’invasione che non includeva il nome di Putin, poi gli “audio rubati” durante un incontro con alcuni suoi fedelissimi del partito, parole che hanno fatto molto discutere. Nel suo discorso diceva che aveva «riallacciato un po’ i rapporti con Putin» e che il presidente russo aveva deciso di «inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo in carica e imporre un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso». Per quanto riguarda Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia – prima dell’invasione e prima di diventare premier – prendeva posizione contro le sanzioni alla Russia e durante la pandemia spingeva per ottenere i vaccini Sputnik. Per quanto riguarda l’estrema destra, le due formazioni neofasciste sono divise: Casapound si è schierata sin dal 2014 dalla parte dell’Ucraina, in particolare sostenendo il battaglione Azov che sarebbe il braccio armato del partito di estrema destra Pravy Sector, “Settore destro”; invece, Forza Nuova è totalmente schierata dalla parte di Mosca e dei filorussi nel Donbass. Infatti, secondo il leader Roberto Fiore “chi inizia la guerra è Zelensky sotto la guida Nato e l’ottusa Meloni, spinta dai faccendieri atlantisti”.

Invece, uscendo dalla galassia della destra italiana si trova il mondo eterogeneo dei pentastellati. Nonostante, dopo l’invasione russa, il MoVimento 5 Stelle abbia condannato l’azione di Putin, negli scorsi anni le posizioni del partito figlio di Beppe Grillo erano ben diverse. Ad esempio, nel 2015 il parlamentare Manlio Di Stefano definiva le proteste europeiste in Ucraina “un colpo di Stato finanziato da Europa e Stati Uniti d’America” e che ha dato vita ad un governo di “convinti neonazisti”, e in quegli stessi anni anche il MoVimento si schierava contro le sanzioni alla Russia. L’allora leader Grillo auspicava un avvicinamento tra Roma e Mosca e spesso ha elogiato il presidente russo, come quando nel 2017 disse – parlando di Putin e Trump – che “la politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato come loro”. Ad oggi, il comico ligure non ha più un vero e proprio ruolo nel partito ma esercita ancora una sua influenza, ed è importante segnalare che – dopo 15 mesi dal 24 febbraio 2022 – non abbia ancora condannato l’aggressione russa. Tra gli altri outsider del partito pentastellato c’è Alessandro Di Battista, che – nonostante abbia condannato l’azione di Putin all’inizio della guerra – mantiene posizioni pacifiste talvolta ambigue. Oltre ai partiti, esiste anche la galassia anarchica e rossobruna che assume posizioni spesso contorte e non sempre strettamente legate alla guerra in Ucraina. Questo perché, in quanto filopalestinesi, si ritrovano a sostenere Putin in quanto il presidente russo (assieme alla Cina) sostiene Assad.  

Radici e storia del pacifismo italiano

Sin dai tempi antichi, filosofi, studiosi e teologi hanno cercato di delineare i principi e i criteri che potrebbero rendere una guerra giusta o legittima. Dalle antiche civiltà greche e romane ai dibattiti medievale e moderno, il concetto di guerra giusta ha assunto forme e interpretazioni diverse, rispecchiando le convinzioni religiose, culturali e morali di diverse epoche e società. Da Sant’Agostino d’Ippona con la sua prospettiva sulla difesa della pace e della giustizia, passando per Tommaso d’Aquino e i suoi criteri rigidi per una “guerra giusta”, fino ai pacifisti radicali e alle teorie moderne sulla legittima difesaIn Italia originariamente, il pacifismo si opponeva in modo assoluto ai metodi violenti nelle lotte di classe e alla rivoluzione sociale, ed era respinto da una parte del movimento operaio e socialista. Ma con l’esperienza delle guerre mondiali e l’avvento dell’era nucleare, il pacifismo ha iniziato ad essere associato alla prevenzione, al contrasto e alla fine delle guerre. Pertanto, oggi il pacifismo include necessariamente la critica delle giustificazioni della guerra, della sua preparazione e del suo svolgimento.

Le radici del movimento pacifista italiano possono essere rintracciate durante la Resistenza italiana al Nazifascismo. E’ esistita infatti anche una forma di resistenza partigiana non violenta che coinvolgeva tutti coloro che sceglievano di non impugnare le armi. Tra di essi renitenti alla leva, contadini e montanari che offrivano sostegno ai combattenti, ma anche molte donne che collaboravano come staffette, sacerdoti, medici e professionisti vari parteciparono alla Resistenza senza mai usare armi. Anche se, come spiega a Magzine lo storico Ruggero Giacomini, “sarebbe sbagliato contrapporre il loro contributo a quello dei combattenti partigiani: erano tutti parte dello stesso movimento unitario e plurale che fu la Resistenza”. Altre ispirazioni culturali del pacifismo italiano si possono individuare in diversi movimenti in alcuni casi anche contrapposti. “Tra questi – ricorda Giacomini- il pacifismo democratico giuridico di Ernesto Teodoro Moneta, premio Nobel per la Pace nel 1907, che promuoveva la risoluzione delle controversie tra Stati tramite l’arbitrato, ma che in seguito sostenne le guerre in Libia e mondiale”. Inoltre, continua il professore, “c’era il pacifismo antimilitarista e di classe rappresentato dalla rivista “La Pace” di Ezio Bartalini, che faceva parte del movimento socialista e diffondeva le posizioni pacifiste di impronta radicale cristiana di Leone Tolstoj”.

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Partigiane fiorentine dopo la Liberazione (LaPresse)

Sin dalle origini il movimento pacifista italiano ha posto grande attenzione all’obiezione di coscienza al servizio militare, ottenendo anche risultati concreti. Questo tema ha portato, infatti, all’introduzione della legge numero 772 del 15 dicembre 1972, che ha riconosciuto il diritto di rifiutare il servizio militare obbligatorio e di sostituirlo con un servizio civile non armato, anch’esso obbligatorio. Prima di questa legge, vi erano stati individui che avevano rifiutato l’arruolamento o la leva a causa delle loro convinzioni pacifiste, anarchiche, antimilitariste o cattoliche, affrontando le conseguenze legali di tale scelta. Negli anni Sessanta, emersero le prime obiezioni al servizio militare basate sulla fede cristiana, sostenute da figure come padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani. Queste personalità divennero punti di riferimento per il movimento pacifista in generale. Milani, in particolare, fu processato due volte per apologia di reato. Oltre alla renitenza alla leva, nella seconda metà del Novecento, il movimento pacifista italiano ha adottato diverse forme di protesta e disobbedienza civile. Queste includevano il boicottaggio, come quello dei portuali italiani che si rifiutarono di operare con navi provenienti da Grecia e Cile; l’obiezione alle spese militari, con alcuni individui che detrassero dalla loro dichiarazione dei redditi la percentuale da destinare al ministero della Difesa; la restituzione dei congedi illimitati come segno di protesta da parte di coloro che avevano già completato il servizio militare; i referendum autogestiti, gli incatenamenti, i tappeti umani e i blocchi ferroviari, come il famoso blocco alla stazione di Capalbio contro la costruzione di centrali nucleari.

Probabilmente, però, il più importante movimento pacifista italiano fu i “Partigiani per la Pace” che si formò a partire dagli anni Quaranta. “Si è trattato del primo e principale movimento per la pace dell’era nucleare e, come tale, può considerarsi costituente, a partire dal programma perseguito, dei movimenti successivi, anche se nessuno ha più potuto raggiungere quella consistenza, capillarità e capacità di tenuta e di coinvolgimento” spiega Giacomini. Esso è stato costituito da una vasta rete di comitati che rappresentavano diverse posizioni politiche e ideologiche, compreso il Partito Comunista Italiano (PCI), il Partito Socialista e altre organizzazioni. Il cuore ideologico del movimento si basava sulla convinzione che una nuova guerra mondiale potesse essere evitata e che l’opinione pubblica organizzata avrebbe potuto avere un peso sulle posizioni dei governi. Nato nel contesto internazionale della rottura della grande alleanza antifascista, con la promozione americana del Patto atlantico e della guerra fredda, il movimento poté giovarsi dell’apporto sostanziale delle organizzazioni dell’Urss e degli altri Paesi socialisti, e contare in Italia su un’ossatura costituita principalmente da attivisti del Partito comunista, del Partito socialista e di organizzazioni collaterali come l’Unione Donne Italiane, con adesioni più o meno ampie e qualificati di area cattolica e liberale. 

Manifesto Partigiani della Pace 1949

Manifesto Partigiani della Pace, 1949

Nello specifico, per quanto riguarda il PCI, “il Partito non ha mai sostenuto l’obiezione di coscienza al servizio militare né ha abbracciato il pacifismo assoluto della non violenza, sebbene abbia collaborato con teorici della non violenza come Aldo Capitini”. La visione filosofica di Capitini sosteneva che la non violenza non fosse solo un’etica personale, ma un principio che doveva essere applicato anche a livello politico e sociale, promuovendo una cultura di pace e giustizia. Il Partito Comunista ha visto con rispetto iniziative come la marcia della pace Perugia – Assisi del 1961 e il raduno dei sindaci a Firenze a sostegno della pace promosso dal sindaco Giorgio La Pira che riuscì a far convergere i tre filoni storici del pacifismo italiano: social-comunista, cattolico e liberal-radicale. 

Esiste anche un filone pacifista che si collega al mondo della scienza. Infatti, durante gli anni della Guerra Fredda, il pericolo derivante dagli ordigni nucleari indusse molti altri scienziati a una profonda riflessione sul proprio ruolo. Nel 1955, un mese prima di morire, Einstein sottoscrisse un testo, proposto da Bertrand Russell, che diverrà celebre con il nome di Manifesto Russell-Einstein. Nel manifesto si invitavano gli scienziati a riunirsi in conferenza per valutare i pericoli derivanti dalle armi nucleari e discutere possibili soluzioni. Come spiega a Magzine il professor Silvano Fuso, chimico e divulgatore scientifico, “sulla scia del Manifesto Russell-Einstein nel 1957 si tenne una conferenza di pace nella cittadina di Pugwash, nella Nuova Scozia. Alla conferenza inaugurale del 1957 ne seguirono molte altre insieme a seminari, gruppi di studio, consultazioni e progetti speciali”. Oggi la Pugwash Conferences on Science and World Affairs possiede una struttura organizzata a livello internazionale. Molte altre iniziative di pace sono poi nate all’interno della comunità scientifica. Ad esempio, in Italia nel 1983 è nata l’Unione Italiana Scienziati per il Disarmo.

Nel dibattito pubblico in molti hanno criticato le opinioni degli scienziati che tendono ad occuparsi di temi che non sono propriamente di loro competenza. Ma secondo il professor Silvano Fuso, “gli scienziati hanno il diritto di esprimere le loro opinioni sulla pace in quanto cittadini, come affermato anche da Bertrand Russell”. Forse meglio di altri, – continua Fuso – hanno le competenze tecniche per rendersi conto delle conseguenze che certe azioni belliche possono avere e quindi possono fornire un utile contributo di idee”. Nel nuovo contesto degli anni Ottanta, il movimento pacifista italiano ridefinì le sue priorità. La questione del disarmo nucleare perse gradualmente importanza, e il movimento si organizzò lungo tre principali strade: la lotta politica, la lotta giuridica nel campo del diritto internazionale e quello che venne chiamato “pacifismo concreto”, promosso da figure come Alexander Langer. Quest’ultimo metteva in primo piano l’azione diretta sul campo nei territori colpiti dai conflitti.

Un partecipante alla prima marcia per la pace, 1961

Un partecipante alla prima marcia per la pace, 1961

A inizio anni Novanta il movimento pacifista italiano si divise in tre strade principali: la lotta politica, la lotta giuridica nel campo del diritto internazionale e il “pacifismo concreto” che enfatizzava l’azione diretta nelle zone di conflitto. Il pacifismo politico perseguì soluzioni non violente ai conflitti, cercando un ripensamento del ruolo dell’Onu e dell’Unione Europea, il disarmo e una riduzione delle spese militari. Il pacifismo giuridico si concentrò sul diritto internazionale, promuovendo la creazione della Corte penale internazionale e tribunali speciali per i crimini di guerra. Durante gli anni Novanta, il panorama internazionale subì un cambiamento con l’accelerazione dei conflitti globali. La guerra in Kosovo e l’intervento della Nato generarono dibattiti contrastanti, mentre gli attentati alle Torri Gemelle e l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti portarono a una rinascita del movimento pacifista in Italia e nel mondo. Il movimento pacifista si sovrappose in parte con i movimenti sociali antiliberisti e anticapitalisti, con una crescente enfasi sulla dimensione politico-militare. L’antiamericanismo emerse in questo contesto, ma solo in parte influenzò i movimenti pacifisti tradizionali, che rimasero focalizzati su critiche specifiche e non adottarono un’ideologia anti-americana generale.

Attualmente, nel contesto della guerra in Ucraina, i movimenti pacifisti sostengono lo slogan “né con la Nato né con Putin“, ritenendo che non rappresenti una posizione di equidistanza tra le responsabilità dei fronti ucraino e russo. Sebbene ci siano stati contesti politici in cui la condanna all’aggressione russa è stata considerata debole e ambigua, la Rete Italiana Pace e Disarmo ha definito l’azione di Putin come “criminale”. Il principio sostenuto è quello del rifiuto della guerra, accompagnato dalla necessità di solidarietà con le popolazioni colpite, sia in Ucraina che in Russia, e di lavorare per una soluzione diplomatica che sia ancora considerata possibile.