“Non mi volevano fare un contratto. Mi sono sentita svilita, perché delle persone con esperienza si sono approfittate di una che non ne aveva così tanta”. “Dopo la prova non mi hanno voluto pagare. Mi sono sentita usata”. “Mi hanno proposto un contratto part time a 900 euro al mese, ma in realtà avrei dovuto lavorare nove ore al giorno e senza giorni liberi. Certe cose non te le aspetti, soprattutto dopo due lauree”.

Di testimonianze come queste ce ne sono tante. Troppe. Mi è bastato chiedere sui social se qualcuno dei miei follower fosse stato oggetto di sfruttamento lavorativo e nel giro di pochi minuti già diverse persone mi avevano contattato, soprattutto giovani.

Oggi è la Festa dei Lavoratori, e non del “lavoro” come invece molti pensano. E proprio due settimane fa, a ridosso di una giornata così importante, due noti imprenditori italiani – Alessandro Borghese e Flavio Briatore – hanno rilasciato un’intervista dove, essenzialmente, giustificavano e sostenevano lo sfruttamento giovanile sul posto di lavoro. “Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati” ha dichiarato il ristoratore.

“Crediamo che tutti debbano partire da un minimo dignitoso e che da quella quota si vada a crescere”È evidente che sia in corso uno scontro generazionale, ma non tutti – per fortuna – la pensano come questi impresari. “Sento Briatore dire che i giovani non vogliono lavorare e che preferiscono il Reddito di Cittadinanza, e quindi chiedo: quanto li paghi, Briatore, affinché questi rinuncino ad una prospettiva di una vita lavorativa?”: le parole sono di Giuseppe Civati, il leader di Possibile che da tempo conduce battaglie per l’imposizione di un salario minimo in Italia. “Al di là delle azioni di denuncia delle condizioni di sfruttamento, c’è bisogno di norme che costituiscano delle pietre miliari per un percorso completamente diverso. Noi sosteniamo l’introduzione di un salario minimo, cioè di una quota oraria che non possa essere trascurata”. Ovviamente, non si tratta di una proposta che preveda la parità salariale indistintamente dal lavoro svolto: “Se una donna svolge la stessa mansione di un uomo, deve avere lo stesso reddito e le stesse garanzie. Crediamo che tutti debbano partire da un minimo dignitoso e che da quella quota si vada a crescere”.

Civati, conosciuto anche come “Pippo”, è ben conscio di come tra i suoi coetanei sia diffusa forma di conservatorismo. “I boomer vogliono mantenere lo status quo perché temono che la loro condizione possa peggiorare. Trattano i giovani come se fossero immigrati, dicono loro: dovete aspettare, dimostrare di essere capaci, per un po’ non vi paghiamo. C’è questo atteggiamento per il quale i giovani devono fare la gavetta, ma devono farla gratuitamente”.

“Quando in un periodo storico si manifesta un bisogno collettivo, è la politica a doverlo esaudire”In gioco c’è il futuro – oltre che il presente – delle nuove generazioni. Infatti, secondo le rilevazioni Eurostat, i giovani in Italia lasciano casa dei propri genitori in media a trent’anni, soprattutto a causa delle scarse capacità economiche di questi. “Io mi chiedo: è possibile che la nostra società non investa sui propri giovani e che non abbia una vocazione a rendere migliori le condizioni di tutti? Davvero pensiamo che le persone, lavorando, possano vivere con 600 euro al mese?”. Infatti, non si può, e i dati lo dimostrano. Secondo Civati, il problema dello sfruttamento non è di tipo economico. “C’è bisogno di una campagna culturale, per superare la logica paternalistica per cui i giovani dipendono dalle vecchie generazioni, ma anche della politica: quando in un periodo storico si manifesta un bisogno collettivo, è la politica a doverlo esaudire”. Dunque, che questo bisogno diventi realtà, magari entro la prossima Festa dei Lavoratori.