A due anni e mezzo dalla caduta del colonnello Gheddafi lo Stato centrale in Libia è soltanto un ricordo. Un tempo uniti contro il regime, oggi gli ex ribelli si combattono fra di loro. Fra richieste di autonomia e ipotesi di secessione, il Paese è lacerato dalle rivendicazioni territoriali: Misurata, la città martire della rivoluzione, contro Tripoli; i federalisti della Cirenaica contro Tripoli; i berberi dell’ovest contro Tripoli; i tuareg e i tebu del sud contro Tripoli. Il rischio è quello di una “somalizzazione” del Paese, una frammentazione del territorio che aprirebbe le porte al traffico di droga, di armi, di esseri umani.
Il debole esecutivo del premier Ali Zeidan fatica a tenere insieme i pezzi di un paese in cui le appartenenze territoriali prevalgono su quelle politiche, molto più recenti. E le autorità locali non perdono tempo: la Cirenaica ha annunciato la creazione di un governo regionale autonomo, ha istituito la Lybian Oil and Gas Corporation a Tobruk per commercializzare le risorse energetiche e ha creato una banca regionale. Una soluzione federalista, dunque, ma non condivisa da tutti i gruppi territoriali del Paese: una parte dei berberi, che controllano la regione al confine con la Tunisia, non esclude la possibilità di reclamare l’indipendenza.
Se la Libia riuscirà a superare l’instabilità o imploderà in un nuovo conflitto civile è difficile da prevedere. La situazione potrebbe favorire non solo una recrudescenza delle faide interne ma anche l’ingresso nel Paese di cellule di Al-Qaeda provenienti dal Sahara dopo la guerra in Mali. Il terreno è fertile a Bengasi e Darnah dove già operano due rami di Ansar al-Sharia, organizzazione di matrice qaedista, ritenuta responsabile dell’attacco in cui morirono l’ambasciatore americano Chris Steven e altri tre cittadini statunitensi.
A ovest, le autorità tunisine segnalano un traffico incontrollato di armi dalla Libia che va a rafforzare gli estremisti in una delicata fase di crisi di governo proprio mentre viene preparata la nuova costituzione. Zeidan chiede aiuto ai vicini: “Questo problema – dichiara il premier libico – deve essere risolto con la collaborazione di entrambi i Paesi. Ho detto al presidente tunisino Moncef Marzouki che dovremmo cooperare pienamente al fine di adeguare la sicurezza e la mobilità attraverso il confine di entrambi i Paesi per garantire la sicurezza”. Zeidan spiega che le forze militari e di polizia sono ancora in fase di addestramento nell’ambito di un programma di collaborazione con l’Unione Europea e lascia intuire che vi è un buon livello di controllo solo su Tripoli. La polizia libica verrà anche formata sul fronte dell’immigrazione clandestina verso l’Europa.
Lo sgretolamento politico seguito alla Primavera libica hanno messo in ginocchio il Paese anche dal punto di vista economico e commerciale. Per uno Stato dove la vendita di petrolio e gas naturale rappresenta il 96% delle entrate governative e il 97% delle esportazioni, le lotte tra le comunità e la mancanza di una vera leadership rischiano di far collassare l’intero sistema economico. E una parte importante del rifornimento energetico dell’Italia dipende dalla Libia.
Nel 2011 il nostro Paese importava da Tripoli circa 9,5 miliardi di metri cubi all’anno di metano, circa il 12% del fabbisogno nazionale. Nel 2012 questa percentuale è scesa al 9% e il 2013 si preannuncia ancora più nero, dopo che a novembre un gruppo di ribelli berberi ha preso il controllo del Greenstream, il gasdotto che collega la Libia all’Italia. L’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni non ha voluto creare allarmismi, dichiarando che l’Italia può anche fare a meno del gas libico. Tuttavia le complicazioni che si sono create in seguito al blocco dell’Ucraina al gas russo diretto in Europa non sembrano in linea con la sicurezza manifestata da Scaroni.

I problemi economici della Libia non si limitano solo all’esportazione di gas. Le occupazioni delle aree petrolifere e dei porti hanno causato un crollo della produzione e delle esportazioni di greggio mai visto prima. Si è passati da una media di 1,5 milioni di barili prodotti al giorno, nel 2011, a circa 200mila barili nel settembre 2013, con il minimo storico di 90mila toccato solo un mese dopo. Una situazione difficile che, anche in questo caso, vede l’Italia come uno dei paesi più penalizzati: il petrolio libico rappresenta circa il 23% del fabbisogno nazionale.
Zeidan finora si è mostrato sicuro di poter risolvere il problema: “Abbiamo già instaurato trattative con le fazioni che stanno bloccando il trasporto del petrolio verso i porti – ha dichiarato ai microfoni di Euronews – Se queste non andassero a buon fine saremo costretti a prendere provvedimenti più duri”.