Alzaia Naviglio Grande, numero 6: Cesarino Lamberti, ex tassista e personaggio storico del Ticinese, ci ha trascorso una buona parte dei suoi 81 anni. Qualche giorno fa, passando di fronte alla vecchia abitazione, ha trovato il cancello socchiuso. Ci ha pensato un po’ ed è entrato nel cortile: “Mentre mi guardavo intorno, un signore si è affacciato alla ringhiera invitandomi in maniera ferma ad andarmene. Per fortuna una donna mi ha riconosciuto dal secondo piano e tutto si è chiarito”. A salvarlo dall’imbarazzo è stata la figlia dell’anziana portinaia: era solo una bambina quando Lamberti abitava nello stabile, ma si ricordava di lui. È il quartiere a non riconoscerlo più, come lamenta egli stesso: “Ora quella è una casa di lusso e non vogliono estranei. Allora eravamo operai e lavandaie, il portone era sempre aperto”.

Al civico 8 fino a un anno fa c’era l’Arzigozzoviglieria diGiorgio Pastore, l’ultima bottega storica dell’alzaia. Ha chiuso dopo quarant’anni di attività, travolta dall’economia dell’happy hour come l’antiquario che due portoni più avanti vendeva icone russe, o il fabbro sparito per fare posto a una pizzeria: il mercato lo fanno i locali notturni, per sopravvivere ci vogliono 50mila euro l’anno di l’affitto. “E pensare – sorride Pastore dietro la barba bianca – che un giapponese che aveva notato il mio negozio ha aperto un’Arzigozzoviglieria a Yokohama. Ma qui sta cambiando tutto: quando arrivai, nel cortile c’era uno che riparava gli zoccoli e dall’altro lato uno stracciaio. Oggi persino gli artigiani sono scomparsi”.

Basta una passeggiata all’ora dell’aperitivo per capire che il Naviglio di cui parlano Lamberti e Pastore non esiste più. Ma il canale è più vivo che mai: ha solo cambiato pelle. Le sue sponde sono un polo di attrazione per un mondo che ha soldi da spendere e voglia di divertirsi. Con buona pace dei residenti che subiscono traffico e rumore, gli affari sono affari. Il carattere più vivace del Ticinese non dispiace per esempio aFabio Ghezzi, gestore del negozio di fumetti e dvd Supergulp. Dal suo bancone vede passare artisti, intellettuali e volti noti dello spettacolo. Aumentano sempre più la clientela “fashion”, i modaioli in cerca di pezzi da collezione ispirati al cinemafantasy, e i passanti che entrano a curiosare per caso, uscendo dalla pizzeria.

Ghezzi, 38 anni di cui 34 vissuti sull’Alzaia, è un altro dei residenti storici: “Mia nonna faceva il bucato in Vico dei Lavandai, mio nonno ha imparato a nuotare qui. Le cose cambiano, ma anche oggi questo è un piccolo paese, ci si conosce e ci si aiuta. Certo, alcuni fanno fatica con i nuovi modelli di consumo. C’è un negozio di dischi, gli sono affezionato perché ci ho preso tutta la collezione dei Rolling Stones: ora rischia di sparire. L’ultimo fruttivendolo, che ha chiuso l’anno scorso, mi disse: “vendo una pesca al giorno, cosa ci sto a fare?”. Ma se la gente scarica la musica e va al supermercato non è colpa dei locali notturni”.

Il popolo del Ticinese discute e ognuno difende le proprie ragioni. Pastore non ha niente contro l’happy hour, “ma quella lombarda è una grande cucina e questa zona ne era un bastione: se i ragazzi preferiscono gli stuzzichini, certi segreti si perderanno per sempre”. A cercare di salvare la vecchia atmosfera del Naviglio è rimasta la comunità di artisti che sull’Alzaia ha stabilito il proprio nido. Si ritrovano nello studio della pittrice Maria Teresa Piantanida, “Mitti” per gli amici: immersa tra i dipinti, con basco e foulard, tira fuori un’insospettabile grinta nel raccontare dei colleghi estromessi a forza di sfratti. “Io resisto per una scelta di vita, non voglio abbandonare il quartiere moribondo. Abbiamo raccolto 5 mila firme per salvare i negozi e le botteghe tradizionali e ottenuto l’interessamento degli assessori Maiolo e Sgarbi, ma trattandosi di affari tra privati la soluzione non è semplice. Certo che 60 tra pub e ristoranti in 600 metri di strada non hanno senso”. Paradossalmente, tra le vittime della trasformazione ci sono anche alcuni bar. Paolo Di Pinto, titolare del Little Barall’angolo con via Gorizia, chiuderà dopo 30 anni: “Ci sono sempre meno clienti, di giorno è un quartiere morto. Ora poi la sosta per le auto è impossibile”.

Il caso del Little Bar è esemplare: la sfida attuale è liberare il Naviglio dall’assedio del traffico senza “desertificare” il quartiere. Per il momento, gli interessi ambientali, architettonici e commerciali sono impaludati nelle acque fangose in mezzo al cantiere della Darsena. Il parcheggio da realizzare sotto lo specchio d’acqua rappresenterebbe uno spartiacque nella storia del Ticinese. La cosa da fare, secondo Ghezzi, è scegliere una strada e avere il coraggio di percorrerla: “L’idea della zona pedonale serale è geniale, lo dico anche da commerciante: ad agosto faccio gli incassi migliori. Prima, tra le sette e le dieci c’era una coda ininterrotta di auto a intossicare l’aria. Ma serve il parcheggio. Le auto che prima sostavano sull’Alzaia, da qualche parte le devi mettere. Poi ci vogliono i controlli. Per strada capitano risse, si vedono bottiglie spaccate, c’è casino. Non basta tenere pulita la via principale, è come mettere la polvere sotto il tappeto: nelle traverse succede di tutto”.

C’è chi vive i lavori per il parcheggio come una ferita all’orgoglio del quartiere. Lamberti ricorda i giorni in cui “l’acqua era così pulita che d’estate il lungo-naviglio si riempiva di rane. Virginia, la moglie del “rutamat” che abitava qui a fianco, soffriva di raucedine, così la sera usciva, acchiappava un paio di rane e se le ingoiava vive perché la loro schiuma è come un antibiotico naturale. Ma oggi è uno schifo, quel cantiere è ridotto a una discarica e io che sono nato su queste sponde mi sento fremere di rabbia. Nel ‘73, quando facevo il tassista, ci ho portato Twiggy per un servizio fotografico. Se lo immagina un servizio di moda sulla Darsena di oggi?”.

Chissà se una domanda del genere se la è mai posta Tuchar. Arrivato dal Bangladesh, tutti i fine settimana Tuchar allestisce il suo banchetto a pochi metri di distanza dallo studio di Mitti. Vende orecchini, bracciali, ciondoli, cuffie, sciarpe, guanti, foulard, incenso, profumi, candele e portafortuna esotici. La sua bancarella, racconta con forte accento asiatico ma in un italiano chiaro, è un osservatorio sociale: “Si fermano persone sui 30-40 anni, a volte di mezza età, anche vestite bene. Coppie indecise: lei vuole comprare, lui no”. Non ha oggetti del suo Bangladesh: ciò che vende viene dall’India e dalla Cina, ma preferisce non nominare quest’ultima perché ha capito che al momento la Cina evoca sentimenti contrastanti. L’India piace di più e quando i passanti lo scambiano per indiano lui sta al gioco: “La gente è simpatica. C’è una ragazza che si ferma spesso, e ogni tanto mi compra qualcosa oppure mi offre un caffè”.

L’aria che si respira lasciando la zona di Tuchar e scendendo lungo le rive è quella di tanti quartieri metropolitani europei, dove interi scorci di storia vengono arruolati e riciclati nel fiorire spontaneo delle attività commerciali: l’effetto è una commistione un po’ finta, ma tutto sommato funziona. La chiave di lettura sta al di là della vetrina di un locale, proprio accanto al civico 6 dell’Alzaia, la casa dove Cesarino Lamberti ha vissuto sessant’anni e in cui non ha resistito a dare una sbirciatina. Raccontano i residenti che una volta lì c’era una latteria, poi è arrivata una drogheria, quindi una galleria d’arte, e ancora una trattoria milanese alla moda. Fino all’ultima trasformazione, di pochi mesi fa: oltre la vetrina, ora, si legge il menù di un ristorante nepalese. Una giovane coppia si ferma, scorre la lista e poi getta lo sguardo poco più su, verso una pizzeria, indecisa tra una quattro stagioni e un curry d’agnello in salsa di coriandolo.

di Francesco Segoni