Nell’attesa della prima del film Il caso Pantani di Domenico Ciolfi, nelle sale italiane dal 12 al 14 ottobre, non posso non riavvolgere il nastro del mio film personale, del mio ricordo del grande ciclista . Avevo individuato sabato 14 febbraio 2004 come un potenziale giorno indimenticabile della mia vita. Avevo sedici anni, e mi ero innamorato di una ragazza talmente bella che soltanto il pensiero di lei illuminava le mie giornate. Era stato il colpo di fulmine di una gita scolastica, poi ero riuscito nell’impresa masochista di diventare suo amico. Il piano prevedeva che si sarebbe dovuta innamorare di me, cosa che non accadde. Nella lontananza da lei durante le vacanze di Natale, avevo fantasticato che, con il ritorno a scuola, mi sarei dichiarato apertamente, ci saremmo fidanzati e così avrei festeggiato per la prima volta San Valentino, quel San Valentino che avevo sempre detestato perché, prima di conoscerla, mi faceva ribrezzo l’idea di una festa dedicata agli innamorati che celebrano il proprio amore. Quella sera di San Valentino del 2004 mi ritrovo invece con il mio solito gruppo al Batik di viale Umbria.

Un amico mi dice che quel pomeriggio ha incontrato Linda – sì, lei si chiama Linda – con Damiano, il suo ex, e aveva visto che si baciavano. Ancora oggi, ricordo benissimo la sensazione della mia prima coltellata invisibile nel cuore. D’istinto, mi verrebbe da piangere ma resisto, perché a quell’età basta ancora una battuta di un amico per farti sentire meglio. Dopo una decina di minuti, mio padre mi chiama sul cellulare. Percepisco da subito che si tratta di qualcosa di grave. Papà ha la voce triste: “Hai visto che è morto Pantani?”.  “Che cosa, papà?”. “Hanno ritrovato Pantani morto in una camera d’albergo”. Non ricordo chi dei due ha messo giù per primo . Esco dal Batik. Mi siedo su un “panettone” all’angolo della strada e scoppio in un pianto a dirotto. Gli altri escono poco dopo per cercarmi. Alcuni ridono vedendomi in lacrime, piegato in due dal dolore, mentre provo a spiegare con tutta la disperazione del mondo che è successo qualcos’altro, oltre alla delusione sentimentale. Ho appena saputo che è morto Marco Pantani .

Sette anni prima, sabato 19 luglio 1997, ho nove anni e sono al mare con papà: è il weekend in cui tocca a lui stare con me a Sanremo. Dopo pranzo, gli chiedo come sempre se dobbiamo aspettare le 16 per fare il bagno. Mi dà una risposta che per un bambino può sembrare sorprendente: “Prima vediamo la tappa del Tour de France, perché oggi può vincere Marco Pantani”. Anche mio padre si chiama Marco e non mi era sembrato giusto oppormi. Avevamo una televisione vecchia e piccolissima, con l’antenna da sistemare ogni volta che si accendeva per prendere il segnale. Le classiche televisioni scassate che si portavano nelle case al mare. Tra tutti i ciclisti, veniva inquadrato soprattutto uno che si distingueva dagli altri, perché aveva la bandana, era vestito di giallo, aveva una faccia buffa, le orecchie a sventola, l’orecchino e un’aria spavalda. Qualsiasi bambino si innamorerebbe a prima vista di un ciclista che assomiglia a un pirata. “Lui è Marco Pantani”, mi dice papà. Mi appassiono subito e vengo rapito dalla corsa. Papà mi spiega che questa è la tappa dell’Alpe d’Huez, cinque stelle di difficoltà sulla Gazzetta dello Sport, adatta per gli scalatori. E Pantani è uno scalatore .

Non saprei raccontare i dettagli, ma ricordo che c’era stata una fuga, che all’inizio della salita Pantani aveva staccato il gruppo, aveva raggiunto e superato i fuggitivi, e poi aveva vinto. Da solo, festeggiando sotto l’arrivo con le braccia aperte. Rimasi elettrizzato da due gesti in particolare: prima di decidere di scattare in salita, Pantani aveva gettato la bandana. Non saprei dire se qualcuno poi l’avesse raccolta da terra. Ma l’insensatezza e la teatralità di quel comportamento mi entusiasmarono. Il secondo gesto che trovai incredibile fu di mio papà: dopo che Pantani era scattato, lanciandosi verso la vittoria, mio padre fingeva di spingerlo virtualmente, toccando il televisore con la punta delle dita e muovendo avanti e indietro il braccio. Non capivo se lo facesse per gioco, perché c’ero io, oppure se fosse un’autentica reazione di tifo poco razionale. Non importa: dopo quel giorno avrei fatto sempre la stessa cosa, ogni volta che avrei visto Marco Pantani alzarsi sui pedali.

“Pantani non vincerà mai una grande corsa a tappe, perché gli scalatori sono troppo lenti nelle crono”. Prima del Giro d’Italia del 1998, questa è l’opinione diffusa tra gran parte degli appassionati di ciclismo, ed è la stessa di mio padre. Nel frattempo, però mi sono fatto le mie opinioni. Penso soltanto alla possibilità che Marco Pantani vinca il Giro e trascorro tutti i pomeriggi della seconda metà di maggio a casa, in compagnia delle telecronache di Adriano De Zan e Davide Cassani . Lo svizzero Alex Zulle, velocissimo nelle tappe a cronometro e resistente in montagna, è il grande favorito. Pantani soffre nelle prime due settimane ma sabato 30 maggio a Piancavallo, in Friuli – Venezia Giulia, replica la stessa identica impresa che mi aveva folgorato sull’Alpe d’Huez: scatto in salita, rincorsa a riprendere i fuggitivi, vittoria in solitaria. A Trieste, il giorno dopo, Zulle gli dà tre minuti e mezzo in cronometro. A una settimana dalla fine del Giro, mi convinco anch’io che gli scalatori ti emozionano ma non vinceranno mai una corsa a tappe. E invece, appena cominciano le Alpi, Zulle crolla rovinosamente e scompare dalla classifica. Il Pirata va in maglia rosa a Selva di Gardena. A Pampeago resiste agli scatti del russo Pavel Tonkov, ma è mercoledì 4 giugno sulla salita di Montecampione che realizza il capolavoro definitivo che gli permette di vincere il Giro. La prima settimana di giugno del 1998 rimane una delle più felici di cui ho memoria: la scuola stava finendo, Pantani realizzava il mio primo sogno da appassionato di sport, stavano per cominciare le vacanze e i Mondiali di calcio .

L’aria d’inizio estate mi accompagna a metà luglio, quando parte il Tour de France. La partecipazione del Pirata, ancora ebbro del trionfo al Giro, non convince scaramantici e giornalisti, e si ripetono le stesse frasi fatte sugli scalatori nelle cronometro. “Gli è andata bene con Zulle, ma figuriamoci se può battere Jan Ullrich”. Per quanto mi riguarda, fare il bagno alle 16 in punto non mi interessa più: la priorità sono le tappe della Grande Boucle. Per Pantani la prima settimana è il solito disastro, tra poche montagne e un paio di banali crono per banali cronomen . Bisogna aspettare metà Tour, a Plateau de Beille, per vederlo trionfare come soltanto lui sa fare, recuperando lo svantaggio dagli uomini in fuga e alzando le braccia al cielo in solitaria. Il ritardo in classifica dal tedescone Ullrich però è ancora cospicuo. Serve l’impresa. Lunedì 27 luglio 1998 sono a Sanremo insieme a nonna Elvira, che non riesce a distinguere un ciclista dall’altro, e che mi chiede a che ora possiamo mettere le telenovelas su ReteQuattro. Le spiego che la tappa da Grenoble a Les Deux Alps ha cinque stelle di difficoltà sulla Gazzetta dello Sport, è adatta agli scalatori e che è l’ultima occasione per Pantani di prendere la maglia gialla. “Ecco, parte Pantani. Attenzione, l’atteso scatto di Pantani, non risponde Ullrich, che aveva già dimostrato che quando scatta Pantani è meglio lasciar perdere”. Le parole di Adriano De Zan sono nella storia del giornalismo sportivo. Quello scatto, sotto il nubifragio, è nella storia del ciclismo: tanta salita, ancora discesa, e poi ancora salita. Galibier, su e giù, e poi ancora su verso Les Deux Alps. Pantani parte a 47 chilometri dal traguardo, io mi alzo in piedi sulla sedia, salto sul letto, spingo il Pirata dalla tv, corro, inciampo, è già maglia gialla virtuale, Ullrich è in ritardo di nove minuti, ormai è maglia gialla, grido dal balcone, salto ovunque, mia nonna ride e batte le mani vedendomi così irrefrenabile, gioioso e saltellante. Chiamo papà per condividere le mie emozioni. Dopo chiamo mamma soltanto per dirle che le voglio bene .

Non c’è ancora niente di chiaro nella sua esclusione dal Giro del ’99, così come conosciamo troppo poco delle cause che hanno portato al ritrovamento del suo corpo in una stanza del residence “Le Rose” di Rimini, dovuta secondo l’autopsia da un edema polmonare e cerebrale, conseguente a un’overdose di cocaina e di psicofarmaci. Sappiamo però che la camorra ha avuto un ruolo decisivo a Madonna di Campiglio

Mi ha sempre infastidito la considerazione di molti, secondo cui Marco Pantani in realtà sarebbe morto sabato 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Dopo essere stato fermato prima della penultima tappa di un Giro d’Italia dominato e controllato sin dall’inizio, per il valore di ematocrito superiore di pochissimo al margine di tolleranza, il Pirata, in preda alla rabbia che chiunque prova dopo aver subìto un’ingiustizia, rilasciò una dichiarazione di resa: “Mi sono rialzato dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi per me sarà molto difficile”. Eppure, Pantani ci riprovò negli anni successivi, tra il 2000 e il 2003, a tornare ad alti livelli, battagliando con il più grande imbroglione dello sport di tutti i tempi, l’americano Lance Armstrong, e vincendo due tappe bellissime al Tour. Ma tra Madonna di Campiglio e il giorno di San Valentino del 2004, esplode alle spalle di Pantani una girandola di personaggi poco raccomandabili ed eventi inquietanti che vanno dalle accuse di doping alle scommesse clandestine, dal consumo di cocaina alla criminalità organizzata. Il Pirata, idolo di tutti, è stato in realtà il protagonista sfortunato, più o meno consapevole, di uno squallido intrigo delinquenziale da far impallidire i noir più depravati di Jean-Claude Izzo. Non c’è ancora niente di chiaro nella sua esclusione dal Giro del ’99, così come conosciamo troppo poco delle cause che hanno portato al ritrovamento del suo corpo in una stanza del residence “Le Rose” di Rimini, dovuta secondo l’autopsia da un edema polmonare e cerebrale, conseguente a un’overdose di cocaina e di psicofarmaci. Sappiamo però che la camorra ha avuto un ruolo decisivo a Madonna di Campiglio . Sappiamo che Pantani ha avuto un periodo tra il ’99 e il 2000 in cui è stato dipendente da cocaina. Sappiamo anche che non si è suicidato e che probabilmente a Rimini è stato commesso un omicidio, di cui non si riescono a ricostruire le dinamiche. A sedici anni di distanza, la Commissione Parlamentare Antimafia ha ancora in mano un dossier consegnato dalla Guardia di Finanza, in cui vengono accertati la presenza di qualcuno nella stanza al momento del decesso e lo spostamento del corpo nel periodo di tempo tra la morte e il rinvenimento da parte del portiere del residence.

Quando si pensa a Marco Pantani si pensa alla sua morte. Dopo, forse, ci si ricorda dell’incredibile scalatore che è stato. Credo che, almeno nello sport recente, non esista una vicenda umana più triste. Con la morte di Pantani, il mio interesse per il ciclismo si è annullato

 C’è una frase di un libro di Chuck Palahniuk che mi è rimasta impressa: “Le gioie e le vittorie non durano tanto a lungo quanto i dolori e le sconfitte”. Palahniuk è un pessimista cosmico, e non voglio essere d’accordo con lui. Ma nel caso di Marco Pantani, purtroppo, lo sono. La prima cosa che viene in mente a chi pensa a Marco Pantani non è la sua straordinarietà di ciclista, non è il miracolo sportivo di aver vinto Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno. Quando si pensa a Marco Pantani si pensa alla sua morte. Dopo, forse, ci si ricorda dell’incredibile scalatore che è stato. Credo che, almeno nello sport recente, non esista una vicenda umana più triste. Con la morte di Pantani, il mio interesse per il ciclismo si è annullato . Quelle volte che provo a guardare una corsa in televisione, non mi infiammo più, rimango asettico. Ho sviluppato una sorta di distacco emotivo che mi impedisce di appassionarmi. E anche nel mio quotidiano evito di andare in bicicletta, perché a un certo punto c’è sempre qualcosa che mi riporta a lui. Il destino ha voluto che sabato 14 febbraio 2004 venissi sottoposto, a brevissima distanza, a due grandi dolori adolescenziali. Con gli anni e l’esperienza, ho imparato però che la magia delle emozioni che comportano i rapporti sentimentali può essere replicata, sostituita, comparata. Possiamo pensare che non ameremo più una persona con la stessa intensità, eppure gli stessi batticuori e le stesse sofferenze prima o poi riescono a ripresentarsi, a riaffiorare, a ribellarsi, adattandosi all’età e al nostro vissuto. La magia di Marco Pantani, invece, non sarà mai replicabile .