Il 21 febbraio di quest’anno è stato diagnosticato il primo caso di Covid-19 in Italia: il paziente zero di Codogno. Da quella data, l’aumento dei casi è sembrato esponenziale, portando il governo a prendere drastiche decisioni di contenimento nel giro di pochi giorni. Da allora, si contano un totale di più di 140mila casi registrati e 18mila decessi imputabili al Coronavirus. L’estrema virulenza, già evidente dai numeri del contagio, può essere calcolata tramite il cosiddetto fattore R0, che indica, in parole povere, quante persone saranno infettate in media da un portatore della malattia. Se l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva previsto che il fattore, nel caso del Covid, oscillasse tra l’1,4 e il 2,5, il ritmo di crescita in Italia si è dimostrato superiore a ogni più tetra aspettativa, arrivando ad un punteggio di 2,85 (e quindi di quasi tre persone contagiate per ogni nuovo infetto).Oltre all’estrema contagiosità, da marzo sono circolate numerose immagini di morte, che prima della pandemia era lecito aspettarsi solo in relazione a stragi o zone di conflitto, come i camion militari in processione per il trasporto delle salme o le file interminabili di bare, veri e propri racconti dell’orrore dal cuore produttivo del Paese.
Tutti questi elementi messi insieme hanno portato i media italiani a raccontare il virus con una modalità nuova: equiparandolo e paragonandolo ad una guerra, un combattimento armato. La percezione del pubblico, quantomeno, è che stia avvenendo una narrazione dell’epidemia che rimanda continuamente a scenari bellici, con tanto di prima linea (gli ospedali) e soldati in trincea (medici e infermieri).
Raccogliendo dati riguardanti le pubblicazioni online di alcuni tra i principali giornali italiani (“Corriere della Sera”, “La Repubblica”, “La Stampa”, “Tgcom24”, “Il Giornale”, “La Verità”, “Valigia Blu”, “Globalist”, “Left” e “Internazionale”), è stato possibile stabilire quanto, al di là delle percezioni soggettive, questa analogia ha preso spazio nei titoli delle varie testate.Il periodo preso come riferimento va dal 23 al 30 marzo. In questi otto giorni, i giornali sopracitati hanno pubblicato 4933 articoli riguardanti il Coronavirus. Tra questi, si riscontrano 99 titoli in cui la pandemia viene in qualche modo equiparata alla guerra. In sostanza, l’analogia appare in appena il 2% dei titoli.
La percentuale, com’è evidente, non è affatto alta. Un’analisi puramente quantitativa, dunque, non basta per comprendere come mai il tema sia venuto alla luce.Se la polemica riguarda favorevoli e contrari all’uso del linguaggio bellico nella descrizione della pandemia, è importante partire sottolineando un dato: non esistono pareri espressamente a favore in merito alla questione. In molti titoli, però, non sono i giornalisti ad utilizzare direttamente terminologie affini alla guerra, ma rappresentanti politici e istituzionali o, talvolta, gli stessi medici, le cui parole vengono poi riportate come citazione.
Articolo pubblicato il 26 marzo da “Globalist.it” che riporta nel titolo una dichiarazione dell’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi
Se da un lato, quindi, al di fuori dei media c’è chi ha deciso di adottare questo nuovo linguaggio, non sono mancate le voci di chi sostiene sia sbagliato utilizzare analogie con il mondo bellico. Una su tutte è quella dell’esperta in comunicazione Annamaria Testa, che il 30 di marzo su “Internazionale” ha pubblicato un articolo nel quale esorta a non utilizzare un linguaggio militaristico nel trattare della pandemia, sottolineando il rischio che questo porti a ragionare «molto più secondo logiche nazionalistiche e di conflitto che secondo logiche universalistiche e per prevenire rischi globali».
Da tutto ciò risulta chiaro un punto: la posizione su queste nuove scelte lessicali non è univoca, e non è nemmeno del tutto imputabile al solo mondo mediatico.Sarà responsabilità dei media, però, decidere se sia o meno il caso di continuare a dare risalto ad una visione bellica del “conflitto contro il virus” o se, come è stato suggerito da Annamaria Testa, sia meglio prendere le distanze da una simile narrazione.
Il team del lavoro di ricerca e factchecking è stato composto da: Giovanni Domaschio, Annarosa Laureti, Beatrice Broglio, Federica Magistro, Alessandro De Capua, Alessandra Petrini, Francesco Castagna, Claudio Rosa, Luca Berenghi, Mattia Giangaspero