Alessia Cerantola, nata nel 1981 a Bassano del Grappa, è una giornalista italiana specializzata sul Giappone. La sua passione nasce da lontano, dal’infanzia. Proprio 5 anni fa, nel marzo del 2011, appena diventata professionista, si è occupata del terremoto nel Nord-Est del Giappone. Da lì non si è più fermata. Viaggiando da freelance in tutto il mondo, cerca le notizie sul Giappone (e non solo) meno diffuse in Italia.

Alessia Cerantola, qual è stato il suo primo incontro con il Giappone?

Attraverso i cartoni animati giapponesi mi è entrata nelle vene la cultura giapponese, fin da piccola. Allora il Giappone era ancora un Paese lontano, ma crescendo ho coltivato questa passione: alle elementari ho scritto la tesina sulla geografia e della storia del Giappone; alle scuole medie, ho letto il libro Il gran sole di Hiroshima che racconta la storia sulla bomba atomica. Mi ha toccato particolarmente la storia di una ragazza, Sadako Sasaki, per cui avevo deciso di andare a Hiroshima quando sarei diventata maggiorenne e mi ero appassionata anche alla storia e alla letteratura giapponesi. A 18 anni mi sono iscritta alla facoltà di lingue orientali della Ca’Foscari, mentre tramite internet ho conosciuto una ragazza giapponese che frequento tuttora. La mia prima visita in Giappone è stata nel 2002 e da quell’anno ci vado ogni anno.

Per lei è stato difficile integrarsi nella società giapponese?

Sono stata quasi sempre ospite della famiglia della mia amica e questo mi ha aiutato tanto. Però è venuto il momento in cui mi sono sentita accettata: dopo quattro anni la mamma della mia amica mi ha chiesto dei consigli per la famiglia. Per superare “il muro”, non ho mai cercato di pensare che quello che fanno i giapponesi è giusto o sbagliato. Ho detto semplicemente: “Ok, è così.” Quando sono lì, sono giapponese e accetto tutto. L’ho sempre fatto anche in altre parti del mondo. Nei posti in cui vado, ci sto. Come dico sempre, sono “l’erba cattiva”.

Gli italiani dicono che il Giappone non interessa loro. Ma non è vero

Può raccontare il suo percorso giornalistico?

Ho costruito il mio percorso diversamente dai miei compagni. La mia passione per la scrittura è nata perché si parlava poco del Giappone sui giornali italiani e, anche quando c’erano notizie, spesso non concordavo su come descrivevano il Giappone, che è in realtà un Paese piuttosto complesso. Così, collaborando con Internazionale dal 2007, ho deciso di frequentare la scuola di giornalismo. Capitava spesso che mi chiedessero: “Di cosa vorresti occuparti?”. La risposta era pronta: “Del Giappone”. Ma nessuno ha capito o ha apprezzato la mia idea. La tipica reazione era: “Ah, di Esteri!”. Oppure: “Ma cosa dice questa!?” Però sono andata avanti così. Ho fatto lo stage all’Ansa a Tokyo; allora c’era l’unico corrispondente ufficiale italiano in Giappone e io ero la seconda stagista nella loro storia. Poi ho fatto il secondo stage alla Camera di commercio, dove ho creato il video notiziario dal Giappone per gli imprenditori italiani. Alla fine del master uno dei docenti giornalisti mi ha proposto di scrivere qualcosa sul Giappone per la sua testata.

Certo in Italia non c’è molto interesse sugli esteri, men che meno per il Giappone.

Gli italiani dicono che a loro non interessa il Giappone, ma non è vero. Mi ricordo che, all’esame di Stato per diventare giornalista, nel marzo del 2011, un esaminatore mi ha detto: “Non insista così tanto con il Giappone perché non ne sentiremo parlare”. In quei giorni il Giappone era stato appena superato dalla Cina diventando la terza potenza economica mondiale. È stato purtroppo triste, perché dopo una settimana, l’11 marzo, è successo il terremoto. Da allora la mia carriera da professionista è iniziata con parecchie richieste dalle testate principali. Gli italiani si erano accorti finalmente che i loro corrispondenti sono a Pechino e non a Tokyo.

Sono partita da Tokyo in autobus, di notte, senza soldi e alloggio ed ero anche pronta a dormire in stazione

Quindi è partita subito per il Giappone dopo il terremoto?

A luglio sono arrivata in Giappone per viaggiare a Tohoku, la zona che ha subito i danni dello tsunami. Sono partita da Tokyo in autobus, di notte, senza soldi e alloggio. Ero anche pronta a dormire in stazione, ma per una strana coincidenza, la sera mi è arrivato un messaggio da un giapponese sconosciuto: “Alessia, se ti fermi a Hanamaki (una città in Tohoku), stasera sarai ospite a casa mia”. Così mi hanno ospitato: era un giornalista giapponese che viveva insieme alla moglie. Qualche giorno dopo mi hanno proposto di dormire nel rifugio e ho accettato molto volentieri. Prima mi guardavano male perché i giornalisti di solito dormono in albergo, ma ero contenta di essere la prima occidentale e giornalista che ha passato il tempo con le vittime e che ha condiviso le loro sensazioni. Lì ho conosciuto un signore che si chiama Teruo, e che mi ha chiesto se volevo venire a pregare con lui il giorno dopo. Ho risposto di sì, come sempre. La mattina dopo alle 4.30 mi ha svegliato. Per quello tsunami ha perso la moglie con cui fumava una sigaretta ogni sera, nel barcone di casa. Ha acceso due sigarette e abbiamo pregato. Quando NHK (il servizio pubblico radiotelevisivo giapponese) mi ha proposto di fare un documentario sul mio viaggio paragonandolo all’Aquila, ho raccontato questa storia. È andata in onda non solo in Giappone ma anche in Italia. Ci vorrebbe un giornalismo più affidabile possibile, più neutro. Anche per i disastri, si parla solo di Fukushima ma la maggior parte delle vittime è morta per lo tsunami.

Ci vorrebbe un giornalismo più affidabile possibile, più neutro. Anche per raccontare i disastri naturali

Visto che collabora con i media italiani, inglesi e giapponesi, può raccontare come vede il giornalismo in ciascun Paese? Ci vuole una preparazione diversa?

Sono mondi totalmente diversi. In Inghilterra, precisando che collaboro con BBC e Guardian, trovo la serietà e la precisione maniacale. Quando ho collaborato per la prima volta con BBC per un loro podcast, non avevo nessuna esperienza radiofonica. Però mi hanno insegnato passo al passo, pur lasciando l’iniziativa a me. Sono molto attenti nel “fact checking”, c’è tanto lavoro dietro. Nonostante avessero sacrificato tanto tempo per me, hanno pagato subito dopo la trasmissione. In più mi ha stupito non solo l’aspetto economico, ma anche quello umano: ogni volta che scrivevo loro, mi mandavano una mail di ringraziamento: “Grazie mille per quello che hai fatto per noi”. In Giappone non esistono i freelance o comunque sono pochissimi. I giapponesi sono molto seri e professionali. Tuttavia c’è anche molto autocontrollo e molta autocensura. In Italia non trovo tanta professionalità. Il dramma del nostro Paese è il fatto che tutti vogliono essere protagonisti ma giornalismo è bello se non si vede, come si dice per il trucco. La storia che raccontiamo è più importante dei giornalisti. Un’altra cosa che manca al giornalismo italiano è lavorare in team. Se ho un’idea diversa, o se qualcuno ha un idea migliore, devo imparare a fare un passo indietro e a condividere le storie. Tutti pensano a fare lo scoop da soli. Invece lavorando insieme agli altri, c’è più competenza e più oggettività. Inoltre mancano i dati e per questo, ispirandoci al modello inglese e americano, abbiamo creato l’IRPI (Investigative Reporting Project Italy) con questo spirito: ogni lavoro fatto in un anno circa (verificando i dati) coinvolge almeno 5 persone. Sta andando bene, ma nel nostro Paese vorremmo che le persone capissero che il giornalismo si fa con molta fatica delle volte senza gloria. Non per diventare famosi. Io penso che sia un mestiere molto serio e tanto faticoso.

Il Giappone per me è un Paese-specchio. Mi fa riflettere ed è il posto più diverso in cui io possa vivere

Per la maggior parte degli italiani, l’estremo Oriente è ancora un mondo misterioso. Qual è la tua opinione onesta e personale sul Giappone, visto che ne conosci la realtà?

Innanzitutto il Giappone rimane dipinto nella nostra tradizione come il Paese più strano del mondo. Ci sono delle cose che apprezzo molto e credo che alcune debbano essere importate, tra cui sicuramente l’organizzazione. Tuttavia non credo che ci sia un posto migliore o peggiore, credo che proprio dipende da come ti adatti a ciascun posto. L’ordine, la puntualità, le funzionalità; ma anche questo ha un prezzo da pagare. Come italiani non capiamo perché i giapponesi si annullano tanto per la comunità o non si esprimano tanto. O perché si accettino le situazioni lavorative che non sono accettabili per noi. Però fa parte della diversità. Infatti amo il Giappone perché sono italiana e ho trovato questa chiave di diversità. Probabilmente i giapponesi amano tanto l’Italia. Il Giappone per me è un Paese specchio che mi fa riflettere, il posto più diverso in cui posso stare.