Fischia l’orecchio, infuria l’acufene / Nella testa vuvuzela mica l’ukulele. Così cantava Michele Salvemini, alias Caparezza, nel suo singolo Larsen raccontando la sua malattia. In un’intervista rilasciata lo scorso giugno a Il Resto del Carlino racconta che questo suono fantasma che sente lo costringe a fare tour di non più di 20 concerti per volta: «Faccio questi 20 e mi fermo. Non posso rischiare troppo». In questi sette anni di difficoltà ho incontrato tanti colleghi che mi hanno detto “senti questo”, “fatti vedere da quello”, io l’ho fatto, ma non è cambiato niente. Così ho smesso di cercare cure miracolose per il mio deficit uditivo». E ha deciso di rassegnarsi: «Lì per lì, quando ho scoperto di non poter più ascoltare la musica in cuffia, sono andato in crisi, pensando al mio corpo come a una prigione. Così ho provato di tutto, pillole, iniezioni, psicoterapia, ma alla fine ho capito che dovrò semplicemente tenermelo e magari pensare ad altro, distrarmi».

Il racconto del rapper pugliese ci fa capire come l’acufene sia un disturbo che può diventare invalidante e prendere il sopravvento su qualunque altro aspetto della nostra vita, determinando problemi di sonno, difficoltà a svolgere le attività quotidiane, stress e depressione. Acufene, dal greco akoùo “udire” e faìnamai “manifestarsi”, è la percezione di un rumore, solitamente un ronzio, un fischio, un fruscio o un sibilo avvertito nelle orecchie o nella testa in assenza di uno stimolo acustico esterno. Nella sua forma più grave può influire fortemente sulla salute emotiva e sul benessere sociale delle persone. Circa 65 milioni di cittadini europei, una persona su sette, soffrono di questa patologia e il numero è destinato ad aumentare in modo significativo nei prossimi anni secondo una ricerca dell’Istituto Mario Negri pubblicata sulla rivista Lancet Regional Health Europe.

A dare un sollievo nei confronti di chi soffre di questo problema, dopo 20 anni di studi, ci ha provato un gruppo di ricerca dell’Università di Auckland, in Nuova Zelanda, guidato da Grant Searchfield e Phil Sanders. I risultati sono incoraggianti, con la sperimentazione di una terapia basata sulla tecnologia degli smartphone nella quale la chiave del trattamento è una valutazione iniziale da parte di un audiologo che sviluppa un piano personalizzato, combinando una gamma di strumenti digitali basati sull’esperienza individuale dell’acufene. Il test della terapia digitale sperimentale chiamato “UpSilent” si basa sull’uso di un’app sviluppata per smartphone, di cuffie Bluetooth, di un cuscino per il collo con altoparlanti incorporati e di un quadro di controllo (dashboard) per i medici basato su cloud. Per il controllo, invece, si ricorre all’app di auto-aiuto White Noise, basata su una terapia del suono passiva. Così, dei suoni detti di “sollievo” interagiscono con l’acufene creando un mascheramento, mentre con quelli di “rilassamento” si ottiene un effetto emotivo positivo, associato a situazioni di calma come, ad esempio, il suono di una dolce cascata o di un pianoforte.

Infine con i suoni più complessi, detti di “riqualificazione”, i partecipanti al test imparano a concentrare l’attenzione solo su questi, distogliendola dall’acufene. Alla base c’è questo ragionamento: se l’acufene è un suono fantasma, una sorta di allucinazione del nostro cervello che ci inganna facendoci sentire qualcosa che non c’è, allora perché non applicare questo stesso principio al cervello, inducendolo a ignorare questo suono? Insomma, perché non ingannare a nostra volta il cervello o, quanto meno, a distrarlo quel tanto che basta per fargli ignorare quel suono? «Ciò che fa questa terapia – spiega Searchfield – è riconfigurare il cervello in modo da ridurre il suono dell’acufene a un rumore di fondo che non ha significato o rilevanza per l’ascoltatore».

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