In che modo la pandemia prima e la guerra in Ucraina poi hanno cambiato il modo di fare giornalismo? Quali sono gli elementi adatti a garantire una corretta informazione soprattutto sui media digitali? Come può il dato numerico contribuire a svolgere una comunicazione di qualità? Sono stati questi gli interrogativi al centro della tavola rotonda “Sfide per il giornalismo digitale tra pandemia e guerra: come tenersi lontano dalla misinformation”. L’evento, organizzato da Almed, si è svolto all’interno del Graduation Day di sabato 17 novembre, nella Cripta Aula Magna dell’Università Cattolica. Al termine del panel, la consegna dei diplomi ai 30 studenti che hanno fatto parte del Master in Giornalismo nel biennio 2019/2021.
Alla presenza di vecchi e attuali studenti l’incontro è stato moderato da Laura Silvia Battaglia giornalista e direttrice delle testate del Master. Tra i relatori: il direttore della Scuola, Marco Lombardi, la vicedirettrice Nicoletta Vittadini e i giornalisti Isaia Invernizzi e Marta Serafini. In apertura il professor Lombardi ha voluto porre l’attenzione su come «Negli ultimi tre anni il mondo della comunicazione abbia dovuto fare fronte a contesti di estrema emergenza. Ciò ha rappresentato una sfida ardua ma allo stesso utile e formativa». La professoressa Vittadini invece ha sottolineato come «I giornalisti, per fare fronte agli eventi eccezionali degli ultimi anni, abbiano dovuto mantenere sempre lo sguardo vigile e integrare nel loro lavoro la tecnologia e l’analisi dei dati. Tutti elementi ormai imprescindibili per evitare di fare disinformazione soprattutto sui media digitali».
E proprio sull’importanza del Data Journalism si è concentrata gran parte di questo dibattito. A partire dalla testimonianza di Isaia Invernizzi, attualmente giornalista de “Il Post”, ma cronista presso “L’Eco Di Bergamo” fino a novembre 2020. Proprio per quella testata Invernizzi ha realizzato una fondamentale inchiesta al fine di documentare e chiarire la vera portata della pandemia di Covid-19 sul territorio bergamasco. Nello specifico, il giornalista si è occupato di analizzare e scoprire il reale numero delle vittime nei comuni orobici. «Soprattutto nella prima fase della pandemia non si riusciva a capire l’impatto di questo virus. I medici e gli esperti non sapevano spiegare la rapida e violenta diffusione del contagio e si limitavano a indire conferenze stampe in cui davano una serie di dati», ha raccontato Invernizzi.«Visto che durante la pandemia era difficile raccogliere informazioni sul campo a causa della gravità dell’emergenza, la possibilità di lavorare con i dati è stata fondamentale per garantire un’informazione veritiera», ha specificato il cronista Isaia Invernizzi. «La nostra inchiesta è partita da una analisi dei numeri riguardanti i decessi per covid da marzo 2020: nel giro di un mese ci siamo resi conto che nella provincia di Bergamo i morti erano almeno 3000 in più rispetto al dato segnalato nei bollettini ufficiali. Il nostro lavoro ha fatto luce sulla situazione e ha spinto le istituzioni ad approfondire il tutto». Quindi se da un lato è vero che il mestiere del giornalista non può basarsi solo sullo studio a tavolino di dati e numeri ma deve dipendere da un costante lavoro sul territorio, dall’altro lato dal periodo pandemico in avanti il rapporto tra dati numerici e informazione è diventato molto più stretto.
Il Data Journalism (se basato su un’attenta verifica dei numeri utilizzati) è sicuramente uno strumento utile per raccontare eventi con determinati contesti. Tuttavia, per altre situazioni, come nel caso delle guerre, conta maggiormente l’esperienza diretta che si fa sul posto. «Fare l’inviata di guerra è un onore ma allo stesso tempo è un compito difficile che si può svolgere solo in determinati modi. È possibile raccontare il conflitto sotto vari aspetti: o focalizzandosi sulla zona del fronte, o occupandosi di narrare le storie dei civili coinvolti in queste tragedie, ma in entrambi i casi è necessario vedere coi propri occhi la situazione per poter verificare le fonti personalmente», ha spiegato la giornalista del “Corriere della Sera” Marta Serafini, cronista di guerra che negli ultimi mesi ha viaggiato spesso in Ucraina, sede del principale conflitto armato di questo periodo. «Sicuramente i dati possono aiutare ad approfondire meglio il contesto generale, ma per un’informazione più concreta e sensibile è preferibile andare sul campo», ha detto Marta Serafini, giornalista e inviata di guerra. Per quanto riguarda invece lo sviluppo del lavoro giornalistico sui media digitali Serafini ha sottolineato l’importanza del declinare il singolo prodotto su più piattaforme e sui più mezzi di informazione. Tutti i membri della tavola rotonda hanno poi dato un consiglio per prevenire la disinformazione soprattutto sui social: «I giornalisti sono responsabili non solo dei contenuti propri che veicolano con vari mezzi, ma anche della ri-condivisione di tutte quelle notizie che partono da altri soggetti».
Nella parte conclusiva il panel ha toccato brevemente anche l’ormai annoso problema della crisi del mondo dell’editoria: «Questa crisi può essere in parte mitigata dalla responsabilità del singolo lettore», ha specificato Invernizzi. «Ogni cittadino dovrebbe crearsi una propria dieta informativa e sostenere in modo concreto una o più testate che ritiene svolgano un buon lavoro. Ognuno deve fare la sua parte, non solo i giornalisti».