Il Festival di giornalismo di Perugia è del tutto inserito nei tempi che corrono, decenni in rapida marcia verso un futuro sempre più tecnologico e performativo. In questa evoluzione, la stampa è interessata in doppia misura: se da una parte i social media e l’intelligenza artificiale stanno implementando le possibilità dell’informazione, dall’altra sono in costante aumento i fenomeni di fake news che peggiorano la qualità del giornalismo. Le conferenze che si sono susseguite hanno messo in guardia su certi pericoli che possono essere aggirati attraverso strumenti come il debunking e una conoscenza più o meno approfondita del fatto. Alla base di queste contromisure si trovano addetti ai lavori che, con la loro esperienza, danno degli assist ai colleghi in modo che la piaga della disinformazione non dilaghi in maniera irreparabile.

La lotta alla news avoidance 

Non solo disinformazione e fake news. In questi giorni tra i panel del festival si è discusso di un altro problema altrettanto importante: la news avoidance. Il tema è stato affrontato da due specialisti del settore: Ellen Heinrichs, fondatrice e CEO del Bonn Institute, e Nic Newman, ricercatore presso il Reuters Institute per lo studio del giornalismo.
I dati riportati non sono molto incoraggianti e testimoniano una situazione che deve essere affrontata al più presto possibile: «I data journalist hanno sottomano il problema tutti i giorni: oggi il 36% delle persone dice di evitare certi tipi di notizie. Si tratta di un aumento del 29% dal 2017» ha affermato Newman. A questo si aggiunge il fatto che ormai i gusti del pubblico sono sempre più incompatibili con quanto viene proposto dagli editori.
Di fronte a queste problematiche Ellen Heinrichs e Nic Newman hanno provato a dare alcune pratiche soluzioni per contrastare il fenomeno. Al primo posto c’è la necessità di creare dei contenuti semplici, brevi e utili attraverso formati digitali che rappresentino ciò che il pubblico ama di più. Cosa stanno cercando, quindi, gli utenti? La risposta è molto semplice: storie umane potenti e comprensibili in grado di proporre degli spaccati di realtà quotidiana tutti diversi tra loro.
Ecco, quindi, l’imperativo di ascoltare e sondare il pubblico e le community: per Heinrichs e Newman l’emozione, l’umorismo e l’empatia sono ingredienti fondamentali per attirare chi cerca di girare alla larga dai contenuti di informazione.
In un anno in cui il mondo vede le presidenziali americane e le elezioni per il Parlamento europeo, la necessità di combattere il fenomeno del rifiuto delle notizie è imprescindibile ed è per questo che i due relatori credono che serva anche un ripensamento della copertura politica in queste occasioni così importanti.

IJF2024 debunking and social panel

La rivincita delle giornaliste sui fronti di guerra

Il Festival si è anche preso l’impegno di sradicare una visione comune ancora molto presente nell’ambiente, ovvero quella delle fotoreporter in guerra, presenze ancora non del tutto accettate sui fronti. Il panel moderato dalla videoreporter d’inchiesta Amalia de Simone e intitolato “Donne, corpi estranei in guerra” ha ospitato una triade di esperte che, con le loro testimonianze, hanno permesso la rivalsa femminile sulla narrazione maschile in questa materia, sessista per definizione: Marta Serafini (Corriere della Sera), Francesca Caferri (La Repubblica) e la fotogiornalista Francesca Volpi.Quando sono le donne a farsi portavoce delle dinamiche belliche, l’attenzione si sposta sulla dimensione sociale e marginale dei conflitti, e cioè sulle conseguenze immediate ed emotive che coinvolgono i civili, ma anche sulle ragioni che fanno scoppiare le guerre. È una lente di ingrandimento che sostanzia la narrazione e che sta diventando sempre più preponderante soprattutto in Medioriente, dove si è subito sentita la necessità di concentrarsi sulle cause che hanno portato al 7 ottobre e sulla portata delle vittime. Tanto Serafini, quanto Caferri e Volpi, hanno riportato l’evoluzione dei conflitti moderni, dall’Afghanistan a Gaza. Proprio la giornalista di Repubblica spiega che «raccontare il Medio Oriente da donna è più facile, perché le donne parlano tra di loro, e lo fanno anche riguardo a quello che succede tra le mura di casa». 

Ed è proprio all’interno di queste mura “intime” che è stata Francesca Volpi, fotoreporter del Wall Street Journal che con i suoi lavori multimediali racconta una realtà scomoda: quella della guerra, della trincea, del sangue e delle lacrime. 

Volpi è stata per la prima volta sul fronte nel 2014, in Ucraina. Non era partita né per la guerra né per assistere a rivoluzioni, ma solo per documentare con la sua macchina fotografica le proteste in piazza con la grande curiosità che la contraddistingue. Le due settimane di soggiorno diventano tre mesi, perché nel frattempo «iniziano le sparatorie sui protestanti a Kiev, avanza l’invasione della Russia in Crimea e l’esercito russo entra nel Donbass. «L’Ucraina è stata la mia prima esperienza reale in una zona di guerra», confida la Volpi, e sicuramente mi ha lasciato dentro molto ma, a questo proposito, voglio dire di riflettere sempre sulle scelte che si fanno: è giusto voler vivere il campo di battaglia, ma bisogna fare le cose con consapevolezza. Bisogna prepararsi prima di partire ed è cruciale conoscere la geografia del posto in cui si sta andando. Tanta consapevolezza e anche lungimiranza: è fondamentale pensare anche alle conseguenze e alla realtà che si sta per affrontare», conclude la fotoreporter. 

Combattere la dinsinformazione online

Le elezioni politiche sono tra gli ambiti di più stretta attualità quando si parla di disinformazione, soprattutto online e sui social. Il tema è stato toccato all’interno di un panel dal titolo “Combattere la disinformazione online”, che ha visto tra i relatori Paolo Cesarini – direttore dell’Osservatorio Europeo sui media digitali – e Martina Hilbertova. Se l’Osservatorio da molti anni è impegnato a finanziare progetti che promuovo l’alfabetizzazione mediatica, Transaparency Slovakia, di cui fa parte Hilbertova, combatte la disinformazione politica del Paese e spinge per una maggiore trasparenza delle istituzioni, dopo la morte, nel 2018, del giornalista d’inchiesta Jan Kuciak. Un vero e proprio turning point, a partire dal quale i media hanno iniziato a trattare più a fondo temi di interesse pubblico quali legge, corruzione, giustizia.  L’evento è stato moderato ed introdotto da Matt Cooke, direttore di Google News Lab, ed ha visto anche la partecipazione di Aleksandra Monkos, che da dieci anni fa parte della “Associazione DeMagog”, l’organismo che da più tempo si occupa di debunking e fact-checking in Polonia. Come dice Monkos, il loro impegno è finalizzato a «migliorare la qualità del dibattito pubblico»: per questo motivo, il gruppo si è occupato tanto di temi di stretta attualità locale – le recenti elezioni polacche e, a breve, le Europee – quanto di macrotemi come salute pubblica, crisi climatica e fake news a proposito del conflitto in Ucraina. Monkos e DeMagog hanno presentato anche il progetto “Fake kNoW more” che si propone l’obiettivo di contrastare la disinformazione partendo dai più giovani e dalle loro emozioni nella ricezione delle notizie per affinare nel tempo la loro consapevolezza. Ai più piccoli si rivolge anche un altro progetto, Octogram, un gioco da tavolo in cui non ci si sfida ma si coopera contro un unico “nemico”: Octopus, l’algoritmo negativo dei social. 

I social media sono morti. Lunga vita al web sociale

C’è un tempo per tutto: per i media tradizionali, per quelli nuovi che prima o poi diventano vecchi e anche per i social media, archivi digitali dove raccontiamo le nostre vite e quelle degli altri e dove le notizie sul feed vengono documentate in tempo reale, abituando gli utenti ad un’informazione veloce ma allo stesso tempo superficiale, disattenta e talvolta inaffidabile. 

Ed è proprio da queste piattaforme come Twitter/X, Facebook e più recentemente TikTok, che il giornalismo ha cambiato, in positivo o meno, forma. Nel panel i social media sono morti. Lunga vita al web sociale, Joanna Geary, capo dei contenuti e del pubblico Bloomberg, Mark Little, imprenditore e consulente dei media, Johanna Rudiger, responsabile della strategia dei social media Deutsche Welle Culture & Documentaries e Zoe Schiffer, direttrice di Platformer hanno parlato di come «Elon Musk abbia ucciso Twitter e di come abbia trasformato il suo successore (X) in un sito infernale per i media tradizionali». 

Tra i giornalisti esistono dei principi da rispettare, tra cui la trasparenza, l’etica e la verità dei fatti. Se viene meno uno di questi, è facile perdere autorevolezza narrativa davanti un pubblico, social o meno che sia. Perdere autorità è ciò che i giornalisti hanno temuto quando Elon Musk, dopo aver acquistato Twitter, ha dichiarato guerra ai media tradizionali tagliando titoli e permettendo la pubblicazione di solo un’immagine di anteprima. Un sistema che solleva facilmente dubbi da parte degli utenti sull’affidabilità del sito. Così, molti giornalisti hanno chiuso i loro account Twitter e sono migrati su altre piattaforme dove l’informazione poteva essere più trasparente, la notizia più attendibile e la penna più autorevole. 

«Io e il mio socio Casey Newton abbiamo lasciato Twitter subito dopo che Elon Musk ha iniziato a molestare direttamente alcuni dei suoi dipendenti e a colpire la stampa mainstream in modo molto aggressivo», racconta Joanna Geary che prosegue «siamo passati a Substack e quella decisione è stata una di quelle su cui abbiamo riflettuto profondamente. Abbiamo pensato: “Vogliamo una piattaforma come Substack?”.E la risposta era positiva». Joanna Geary e Casey Newton hanno lavorato su un modello di business comunicativo trasparente, seguendo i principi che da sempre contraddistinguono il mestiere del giornalista. L’obiettivo della loro piattaforma è stimolare i dialoghi e farsi ascoltare dalle persone, ricucire un’informazione che, in particolare su X, ha trasformato gli utenti in lettori passivi, disattenti e superficiali. Joanna Geary e Casey Newton puntano, con il loro modello informativo, a trasformare il target da passivo ad attivo, con la speranza che gli utenti social possano tornare ad essere attenti, stimolati e, soprattutto, ben informati.   

Giornalismo climatico: tra fake news e verità nascoste

Lacune nel mondo dell’informazione che si traducono anche nella disinformazione climatica: questo è il tema principale affrontato nel panel “Verità nell’era della crisi climatica: il ruolo cruciale del giornalismo nell’esporre la disinformazione climatica”, moderato da Steve Sapienza, senior strategist per il Pulitzer Center e, tra le altre cose, direttore della fotografia per il film Easy Like Water, un documentario indipendente riguardo al cambiamento climatico in Bangladesh. Tre le ospiti: Florencia Ballarino, giornalista scientifica e vicepresidentessa dell’Argentine Network of Science Journalism, Ugochi Anyaka-Oluigbo, giornalista ambientale che copre diversi media differenti e Amy Westervelt, giornalista pluripremiata, che ha lanciato il primo podcast “true-crime” sul clima nel 2018, Drilled. I quattro esperti concordano nell’affermare che il ruolo dei giornalisti diventa fondamentale nel disvelare le falsità che trovano spazio su internet e sulla carta stampata. Una comunicazione errata che può avere conseguenze catastrofiche: il pubblico manca di elementi per discernere tra quali notizie sono effettivamente vere e quali, invece, portano le persone a trarre conclusioni sbagliate e, sempre più spesso, a mettere in atto atteggiamenti errati. Il dilagare di fantomatici esperti non fa che aumentare la distanza tra quello che si percepisce come reale e ciò che invece corrisponde davvero alla realtà. La disinformazione climatica può essere creata ad hoc dalle stesse industrie che finanziano i quotidiani per amplificare e diffondere convincimenti pericolosi; Amy Westervelt non ha paura di esporsi: «L’informazione sul clima, il più delle volte, è stravolta a scopi esclusivamente economici. Vengono diffuse intenzionalmente notizie distorte, da cui si possono trarre vantaggi anche a livello politico». Proprio per questo si rende necessaria un’azione forte e coesa di contrasto a un’informazione sul clima che, troppo frequentemente, è appositamente fallace.