Sotto le locandine di Fuga da Alcatraz e Le ali della libertà, Silvia Polleri apre le porte della sua ultima creatura, il ristorante InGalera, inaugurato a fine ottobre tra le mura del carcere di Bollate. Vent’anni da educatrice nelle scuole materne, libera professionista nel settore del catering; attiva nello scoutismo, per due anni coordinatrice di educatori sanitari per l’infanzia in Uganda.

 Cos’è la cooperativa Abc Sapienza in tavola?
«La cooperativa nasce nel 2004, quando, su richiesta dell’allora direttrice Lucia Castellano, mi venne proposto di aprire un catering in carcere con la partecipazione attiva dei detenuti. Idea assolutamente dirompente, anche perché fin da subito sapevo che avrei aperto un servizio di catering di alto profilo, come quello che gestivo all’esterno. Fu l’unica condizione che imposi».

 Quali sono i risultati per i detenuti del progetto catering?
«Il catering si inserisce nella sperimentazione di Bollate, ossia un carcere a trattamento avanzato, teso al recupero socio-lavorativo dei detenuti. La struttura offre da sempre garanzie sufficienti a sostegno del progetto. Su tutte, la diminuzione della recidiva: i dati orientativi dicono che sul territorio nazionale abbiamo il 68% di recidiva, mentre a Bollate scende sotto il 20%. La ragione di fondo è il clima che si è creato e non mi riferisco solo alla nostra attività lavorativa, ma all’atteggiamento generale che il carcere ha espresso nei confronti dei detenuti».

 Da poco più di un mese avete aperto il ristorante InGalera. Come cambia il rapporto tra detenuti e clienti?
«Il ristorante è l’ultima ‘zampata’ che ho voluto dare. Dietro al ristorante c’è l’idea di un rovesciamento della prospettiva. Io uso l’espressione “prendere il toro per le corna e ribaltarlo”, perché normalmente è il carcere a chiedere un servizio alla città. InGalera, per la prima volta, mischia le carte in tavola e invita la città al suo interno, offrendole un servizio altamente qualificato».

 Come ha influito la sua formazione nella realizzazione del progetto in carcere?
«Gli anni alla scuola materna mi hanno fatto capire che le persone che hanno trasgredito le regole hanno un percorso nella loro vita sfilacciato. Aiutare le persone a rimettere insieme i pezzi è sempre stato un mio ‘pallino’. Poi, nei due anni in Uganda come coordinatrice di un team di educatori, ho imparato molto sulla costruzione dei rapporti interpersonali in situazioni difficili. Gli scout mi hanno insegnato tanto sul fronte della legalità, lasciandomi un forte senso di appartenenza verso tutto ciò che faccio. Qui a Bollate ci proponiamo di dare gli strumenti alle persone perché si riapproprino della propria dignità e della propria libertà. Termini come riabilitazione o rieducazione non mi sono mai piaciuti».

 Reazioni all’Ambrogino?
«Grande emozione perché non me l’aspettavo proprio. Ma anche ansia per il senso di responsabilità che accompagna questo riconoscimento».