Una grande tavola imbandita. Il tripudio di colori riempie i piatti, gli aromi pungenti sovrastano quelli più dolci, solleticano l’olfatto, stimolano le pupille gustative. Il sogno di Giulia Ubaldi prende forma attorno al grande tavolo bianco del Lac, il Laboratorio di antropologia del cibo incastonato nel cuore del suo quartiere, il Giambellino. «Non avrei potuto farlo altrove – afferma Giulia – sono legatissima al Giambellino. Sono nata e cresciuta qui, dove è iniziato tutto».
Le barriere vengono azzerate, le distanze annullate. Le ricette tipiche di varie cucine del mondo vengono portate in questo angolo di Milano da cuochi di oltre trenta Paesi. Si cucina tutti insieme, ci si approccia a una cultura attraverso il cibo. Ci si conosce condividendo uno dei momenti di più antica e massima convivialità.
L’esperimento di questo melting pot culinario è nato due anni fa, quando Giulia, dopo la laurea in antropologia culturale e visiva a Siena e un periodo di ricerca in Cilento, aveva già abbracciato e riconosciuto l’intreccio ormai inestricabile tra le sue due grandi passioni: la cucina e l’antropologia.
«Tutto è partito dal Cilento, il legame tra l’antropologia e il mondo del cibo è proprio nato lì. Oltre ad essere il luogo dove è nata la dieta mediterranea, rappresenta il posto in cui ho insegnato, ho aperto la mia azienda agricola, ho fatto la mia tesi di laurea: un luogo dove ho vissuto per quattro anni e per me denso di tante cose».
L’esperienza in Cilento prima e il Lac ora rappresentano la concretizzazione della passione di Giulia: «L’antropologia del cibo è un mestiere che mi sono un po’ inventata per trovare un’applicazione pratica alle mie conoscenze. In Cilento ho fatto lavori pratici in ambito agricolo ma non volevo rinunciare alla parte antropologica e quindi ho unito queste due parti. Ho iniziato a scrivere di cibo senza però mai parlare di una ricetta di per sé, di un prodotto di per sé, ma sempre in relazione alle persone, con uno sguardo sempre attento sulla cultura a 360 gradi. È poi quello che faccio ogni giorno nel Lac, che è un modo per avvicinare le persone attraverso il cibo e la cultura. Un luogo fisico in cui, proprio come a casa, si cucina e si sta insieme».
Giulia Ubaldi: «Tutto è partito dal Cilento, il legame tra l’antropologia e il mondo del cibo è proprio nato lì. Oltre ad essere il luogo dove è nata la dieta mediterranea, rappresenta il posto in cui ho insegnato, ho aperto la mia azienda agricola, ho fatto la mia tesi di laurea: un luogo dove ho vissuto per quattro anni e per me denso di tante cose».
Un connubio che permette di conoscere l’altro, mettersi nei suoi panni, viverlo. Una necessità che ben si avvicina al paradosso del metodo di ricerca: «Un antropologo cerca sempre di esperire e vivere insieme alla persona che sta studiando – spiega Giulia –, assume un punto di vista emico, cerca e vuole entrare dentro. Vive il paradosso dell’osservazione partecipante». Ma quello che affascina Giulia è proprio la possibilità di entrare nel recinto dell’altro: «Dietro ogni ricerca che ho fatto – ricorda Giulia – c’è l’aver passato del tempo con le persone di cui ho parlato. L’antropologia ha la caratteristica di cercare di esperire le esperienze degli altri».
Il mondo al Giambellino. Così Giulia presenta il suo Lac, diventato un punto di riferimento per viaggiare e conoscere, un varco spazio-temporale in un angolo multietnico di Milano. Un luogo in cui si prova a superare le diffidenze tra popoli e culture, in cui la politica internazionale lascia il posto alla voglia di superare le barriere. «Gli incontri che mi ricordo più intensamente sono quelli in cui hanno cucinato insieme una cuoca turca e una armena, o le discussioni su qual sia il riso o la soia migliore tra una cuoca thailandese e una vietnamita. In questi due anni di incontri ce ne sono stati tantissimi e ogni volta le persone che siedono intorno al tavolo sono diverse. Non abbiamo un format fisso per un corso di cucina ma ogni volta cambia in base alle persone che partecipano».
Giulia: «Gli incontri che mi ricordo più intensamente sono quelli in cui hanno cucinato insieme una cuoca turca e una armena, o le discussioni su qual sia il riso o la soia migliore tra una cuoca thailandese e una vietnamita. In questi due anni di incontri ce ne sono stati tantissimi e ogni volta le persone che siedono intorno al tavolo sono diverse. Non abbiamo un format fisso per un corso di cucina ma ogni volta cambia in base alle persone che partecipano».
Il mondo è il punto di partenze e arrivo della ricerca decennale di Giulia. Il cibo diventa la lente per analizzare le migrazioni e l’impatto che hanno su un territorio. E da questa analisi ne ha tratto la consapevolezza che quello che noi chiamiamo tradizione altro non è che un’invenzione, imprevedibile come gli incontri tra le persone. «In Valle d’ Aosta – racconta Giulia – i balconi sono pieni di cipolle di Tropea, e questo aspetto deriva da tre ondate di migrazione dalla Calabria per la costruzione di un tunnel. In Liguria hanno iniziato a vendere il dulce de leche fatto con la cabannina, vacca ligure che si è adattata al territorio. Qui c’è anche la sagra dell’asado ed è la più sentita nella piana di Battolla. Questo significa arricchire la traduzione con nuovi aspetti».
Giulia ha riunito queste ricerche nel suo nuovo libro Zammù, un viaggio nel Mediterraneo dal sapore di casa, come suggerisce il liquore siciliano all’anice che si offre agli ospiti a Palermo e che dà il titolo al libro. Dietro questi 350 articoli raccolti ci sono sapori, suoni, persone, tradizioni osservate e vissute. «Ci sono poche ricette: oggi il mondo del cibo è invaso da questa parte tecnica. Volevo proporre una cartina sentimentale, per ripercorrere le tappe della mia vita e della mia ricerca, alcune lunghe come quella a Milano o in Cilento. Altre brevi ma fondamentali come Cipro e Gibilterra». Proprio quest’ultima tappa è tra le più significative dell’incontro tra diverse culture: «Qui è come se si entrasse in una dimensione in cui ci si allontana da tutto – ricorda Giulia -. C’è farinata ovunque, come se fossimo a Genova. I vini sono importati dal Marocco, c’è il patanegra spagnolo. È un luogo di convergenza. La lingua parlata è un mix tra arabo, inglese, italiano e ligure. Passano da una lingua all’altra senza accorgersene. La lingua è come il cibo e la contaminazione diventa un indice di ricchezza, culturale e gastronomica».
Un guizzo illumina gli occhi azzurri di Giulia, la curiosità instancabile che le fa sognare il Libano e, allo stesso tempo, l’ha spinta ad andare alle radici di una delle tipiche zuppe di pesce del Mediterraneo, il brodetto. Sempre con il suo metodo pratico, salendo a bordo di un peschereccio per analizzare «i 13 pesci della ricetta anconetana, la presenza prevista o meno del pesce azzurro e dello zafferano», differenze e analogie vissute nelle cucine e nei piatti a sud delle Marche, tra Fano e Porto Ascoli.
Alla tavolata sempre imbandita del Lac, Giulia porta il suo mondo. L’aspetto mediterraneo della condivisione del cibo incontra le tradizioni lontane: «Al Lac abbiamo fatto il capodanno iraniano, durante il quale devono sempre essere presenti sette prodotti che iniziano per “s” e portano fortuna. Abbiamo tenuto il classico banchetto georgiano, il supra, dove c’è sempre un capotavola, di solito il capofamiglia uomo, che dirige l’andamento della serata, soprattutto del bere».
Un angolo di Milano che diventa un angolo di mondo, in cui il cibo è un’occasione di inclusione, per concretizzare un desiderio condiviso da Giulia e dai viaggiatori più curiosi, «di essere invitati a mangiare quando si visita un posto nuovo, a casa di una famiglia del luogo».