«La verità è che parliamo di guerra quando dovremmo parlare di pace. Ma si sa, la pace non fa notizia. Se solo concentrassimo le nostre forze sul dialogo, sulla cooperazione e sulla comprensione reale degli altri e non sul guadagno economico e sul gioco forza esercitato da quegli stessi Paesi che ci propinano una narrazione viziata e di parte, forse potremo diventare esseri umani migliori». Uno dei tanti occupanti dell’Università statale di Milano, con cui abbiamo parlato e con cui abbiamo condiviso molto del nostro tempo questa settimana parlando delle ragioni che lo hanno spinto a partecipare all’occupazione, insiste su due concetti: umanità e pace.

Quando uno o più collettivi decidono di occupare uno spazio, la forza dell’occupazione, dice, sta nell’umanità. Sta nelle persone. Per questa ragione è importante che tutti si conoscano o per lo meno che sappiano di vivere temporalmente e illegalmente uno spazio con altre persone con cui condividono un obiettivo. In questi contesti, capita spesso che i giornalisti non siano ben accetti, perché è molto più frequente che si avvicinino coloro che gli studenti definiscono «sciacalli dell’informazione, pronti a sentenziare ogni errore che facciamo piuttosto che persone davvero interessate a capire le ragioni che ci hanno spinto a fare questa azione». I ragazzi sono pienamente consapevoli di doversi assumere le proprie responsabilità, qualora venisse attuato uno sgombero, perché sanno che, secondo il nostro sistema normativo, stanno agendo illegalmente e per questo, con grande senso comunitario e rispetto, osservano con attenzione e cercano di comunicare con tutti coloro che si fermano, incuriositi a leggere gli slogan che tappezzano l’ateneo.

Loccupazione dellUniversità Statale di Milano è cominciata venerdì 9 maggio, con un leggero anticipo rispetto al previsto. Liniziativa è partita dallassociazione dei Giovani Palestinesi ma, sin dalle prime ore del mattino, molti dei collettivi studenteschi milanesi si sono attivati per mostrare il loro sostegno alla causa e i partecipanti sono diventati sempre più numerosi. Così come in diverse università occidentali, dove da mesi molti degli studenti stanno lottando per il riconoscimento dello Stato di Palestina e per chiedere che vengano rivisti gli accordi esistenti con gli atenei israeliani, anche in via Festa del Perdono centinaia di giovani studenti hanno trasformato latrio esterno prima e quello interno dopo nella loro casa.

La tendata del Politecnico di Milano, invece, incontra più difficoltà. « Da parte dell’istituzione Politecnico percepiamo chiusura nei nostri confronti. Non vogliono sentire le nostre ragioni e non siamo ancora riusciti creare un dialogo costruttivo». Hassan, ex studente del Politecnico, milita nei GMI (Giovani Musulmani Italiani) ed è tra gli organizzatori della tendata in piazza Leonardo, di fronte all’università. Le tende sono ancora poche, ma pare sia questione di tempo: la partecipazione è in crescita. «Questo ambiente, a livello studentesco, non è molto ricettivo, ma questo lo sapevamo già. La Statale ha sempre avuto una matrice più politicizzata, rispetto alle altre università milanesi. È forse arrivato il momento che anche gli studenti aprano gli occhi su certe tematiche e non siamo fiduciosi che ciò possa avvenire a breve». La pioggia non cessa ma non si arretra di un millimetro. Ci si mette al riparo, si coglie l’occasione per mettere più gazebo come punto di ritrovo, in attesa che spiova. Sono dei veri e propri hub-organizzativi, dove si preparano gli incontri della settimana.

Nico, attivista e co-organizzatore della tendata al PoliMi, ci dice che l’interesse sta crescendo. «Io organizzo anche l’assemblea degli studenti. Il primo giorno di tendata eravamo in sette, ieri eravamo in 50 . Un bel miglioramento. L’obiettivo è sempre il dialogo con le istituzioni».

Mercoledì Hassan ospita in video-chiamata Fa’ez, un ragazzo gazawi che si trova attualmente a Rafah, in Egitto. La sua testimonianza è cruda e senza fronzoli. Non è una vittima, vuole ribadirlo. Tornerebbe a Gaza e la ricostruirebbe con le sue mani. Vuole solo tornare ad abitare nel suo territorio e dimostrare che i palestinesi di Gaza hanno un’identità e una cultura da preservare. «Prima del 7 ottobre, le nostre condizioni erano già molto precarie. La disoccupazione qui è al 60%, la più alta nel mondo. Gli studenti studiano con la certezza di non trovare poi un impiego con i loro studi. Le nostre università non sono minimamente considerate. La vita era difficile ma almeno avevamo la nostra dignità. Dopo il 7 ottobre, non abbiamo più idea di cosa voglia dire acqua corrente e corrente elettrica. Ci sono i bambini che giocano con i cavi dell’alta tensione, tanto non sono più attivi».

Fa’ez ci vuole dare la responsabilità di diffondere la conoscenza di ciò che sta succedendo. «Le nostre case non ci sono più, i miei amici e parenti lì stanno nelle tende in condizioni igieniche scarsissime. Vengono prese di mira le università che presentano facoltà nell’ambito scientifico e ingegneristico in particolare. La mia università è stata presa di mira perchè rifiuta l’occupazione anche culturalmente e sostiene la resistenza in tutte le sue forme. Anche se non è minimamente riconducibile alle organizzazioni terroristiche, altrimenti non avrebbe le collaborazioni con le università di tutto il mondo, alcune di queste anche italiane».

In Statale da più di una settimana, ormai, centinaia di tende colorano gli ampi spazi dell’università e chiunque attraversi quei corridoi può comprendere le ragioni che stanno spingendo molti giovani studenti ad agire. «Da quando abbiamo iniziato l’occupazione, abbiamo pensato di creare dei turni sia per la mensa che per tenere puliti gli spazi. Ogni giorno elaboriamo i programmi da sviluppare durante le lezioni. Le ore diurne sono dedicate ad iniziative, incontri e conferenze, perché vorremmo che questo possa diventare il punto di partenza per istaurare un dibattito costruttivo sulle questioni legate alla Palestina. Una delle richieste presentate all’Università è che vengano creati degli spazi di confronto su ciò che sta accadendo e che soprattutto l’Università prenda una posizione e che non rimanga isolata nella sua bolla in un mondo che cade a pezzi», dice una delle ragazze di Unità Lotta Democratica. «Martedì abbiamo tenuto un incontro con alcuni studenti gazawi che in questo momento si trovano a Rafah, mercoledì abbiamo organizzato una conferenza con l’avvocato Nicola Datena, incentrato sulla detenzione amministrativa e sulle politiche coloniali», prosegue.

Ogni sera sono previste proiezioni di documentari e film storici che hanno come obiettivo accrescere le conoscenze individuali su macro-temi sociologici e politici: dalla decolonizzazione alla segregazione razziale, dalla resistenza alla sopravvivenza fisica e mentale in zone dilaniate da guerre e crisi climatiche. Tra le pellicole proiettate: Intervento Divino di Elia Suleiman, Farha di Darin Sallam e Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo.

Tra le iniziative presentante, particolarmente costruttivi e formativi sono due incontri che hanno visto una grande partecipazione accademica e studentesca. Al primo incontro intitolato Politica, Resistenza e Dignità in Palestina sono intervenuti attivisti, operatori umanitari, artisti nativi palestinesi e studenti, tra cui Mjriam Abu Sambra, Angielica Giombini, Andrea Lazzeri, Karem Rohana, Thomas Aureliani, Ruanne Hanafy, Moni Ovadia, Hanin Soufan, Jawan Aklouk, Basem Kharma, Giuseppe Pagano e Ibrahim Youssef.

La questione palestinese, durante il dibattito, è affrontata sotto diversi aspetti, dal conflitto attuale al meccanismo di causa-effetto che si è sviluppato per 75 anni e che ha generato una catena d’odio e violenza che oggi sembra indistruttibile. In tal senso, Ibrahim Youssef, studente dell’Università statale, affronta un tema su cui, oggi, dice, «i media occidentali creano una grande confusione. Un grave errore è associare l’anti-semitismo all’anti-sionismo. Spesso per delegittimare la nostra lotta, che – ricordiamo – ha come obiettivo scardinare il sistema israeliano, che ad oggi è basato sull’occupazione e sull’abuso di potere reso possibile dall’impunità e non è quindi una lotta contro il popolo ebraico. Ci identificano come antisemiti. Ma il termine semita si riferisce a tutti quei popoli che parlano o hanno parlato in passato lingue del ceppo semitico e tra queste ci sono l’arabo e l’ebraico. Per questa ragione, mi chiedo, come può un arabo essere anti-semita?».

Jawan Alouk, militante dei Giovani Palestinesi, affronta, invece, la questione legata alla resistenza palestinese. «In questi mesi stiamo vedendo un livello di distruzione senza precedenti. Nonostante questo, la resistenza palestinese, che è storicamente radicata in ogni angolo delle terre occupate, è ancora viva, nonostante Israele stia cercando di screditare la lotta per la liberazione e stia cercando di allontanare la popolazione dai gruppi di resistenza. E la sua tattica non sta funzionando. Israele si trova in una posizione di debolezza, posizione che probabilmente non ha mai ricoperto prima d’ora». Al discorso di Jawan si lega Giuseppe Pagano, attivista e divulgatore di geopolitica, attraverso una riflessione sul ruolo dei nuovi mezzi di informazione che, di fatto, stanno influenzando gli esiti del conflitto. «La carta stampata è in crisi, basta vedere il flusso delle vendite. Il modo di fare e apprendere informazioni sta cambiando. La cosa di cui possiamo andar fieri oggi è che l’ingranaggio che ha fatto saltare il sistema siamo stati noi, cioè noi intesi come singole persone. Abbiamo portato all’attenzione di un pubblico variegato – in un primo momento anche le nostre famiglie e i nostri amici che magari non avrebbero voluto ascoltarci – una narrazione diversa con immagini che arrivano dalla Palestina in tempo reale, senza essere filtrate. Si è sviluppata così una vera e propria contro-informazione, rispetto a quella presentata dai colossi mediatici occidentali. Non dobbiamo mai sottovalutare il nostro potere».

Il secondo panel, intitolato Colonialismo e Apharteid sono categorie utili per comprendere il mondo di oggi? ha visto la partecipazione di due docenti dell’Università Statale di Milano: Elisa Giunchi, esperta di storia delle relazioni internazionali e delle società ed istituzioni extra europee e Cristina Flamingo, esperta di storia ed istituzioni d’Africa. La Giunchi analizza il sionismo come ideologia. «È molto difficile parlare di sionismo, soprattutto oggi. Nella sua fase iniziale nasce come movimento nazionalista a cavallo tra Ottocento e nNovecento per dare uno Stato ad un popolo che era soggetto a persecuzioni soprattutto in Europa occidentale. È un movimento che condivide l’ideologia nazionalista ma è atipico perché vuole dare uno Stato ad un popolo che è tenuto insieme dal solo fattore confessionale. Il nazionalismo sionista, inoltre, prevede il trasferimento di individui da luoghi diversi che vanno dall’Occidente all’Oriente, in una terra dove non hanno mai vissuto. È per questo che i fondatori dello Stato di Israele hanno insistito sulla questione religiosa e sul suprematismo razziale». Prosegue poi, parlando dei principi che hanno portato alla formazione della resistenza palestinese. «Uno degli strumenti utilizzati dallo Stato di Israele è stato il principio di delegittimazione del popolo palestinese e lo stiamo vedendo in questi mesi. Una questione poco nota è che, sin dagli anni Sessanta, i primi movimenti di resistenza palestinese hanno proposto la nascita di uno Stato democratico e non confessionale che prevedesse la coesistenza con la popolazione ebraica. Oggi il sogno di Theodor Heltz – considerato il padre del sionismo – si è avverato dal punto di vista israeliano». La Flamingo invece, interviene mostrando uno sguardo diverso, legato ad un macro-tema su cui è specializzata, l’apartheid: «In Israele esiste un sistema di apartheid? Questa è una domanda che mi viene posta spesso. Io penso di essere stata invitata qui tra voi perché una delle zone di mio interesse è il Sud Africa che in questi mesi sta giocando un ruolo importante nella questione israelo-palestinese. Studiando la storia di Israele e analizzando le mappe, possiamo vedere come la segregazione razziale sia visibile anche attraverso di esse». E prosegue: «Una delle caratteristiche della segregazione razziale sono i muri. Quel territorio ne è disseminato e gli arabi sono da tenere al di la dei muri che sono stati costruiti per difesa e per il mantenimento della sicurezza dello Stato di Israele. Oggi noi siamo qui perché vorremmo che siano anche le nostre istituzioni ad esprimersi su ciò che si sta verificando ed è per questo che sosteniamo i nostri studenti che sono accampati qui».

Dall’altro lato la comunità ebraica non accetta la totale univocità dei convegni sulla guerra di Gaza. Walker Meghnagi, il presidente della comunità ebraica di Milano, ha scritto una lettera al Rettore dell’Università degli Studi, Elio Franzini, per dimostrare il suo ‘personale sconforto’. Meghnagi cita altri incontri in cui aveva prestato la sua voce, avvenuti in Statale nel marzo scorso, sul conflitto Israele-Hamas. Incontri nei quali erano garantiti tutti i punti di vista, anche quello anti-israeliano. Nell’aula 515, giovedì mattina, non è andata proprio così. «Non chiediamo all’università di difendere Israele, ma solo di dare la possibilità ai ragazzi di avere più punti di vista sulla storia. Gli studenti hanno il diritto di sentire opinioni differenti».

La Giunchi chiude il panel con un monito per tutte le parti in causa: «Maneggiamo con cautela la storia perché è soltanto la storia che ci permette di sfatare quei miti che sono stati costruiti e che si sono consolidati nel corso dei decenni sulla questione palestinese».