All’interno dei conflitti armati, il cyberspazio e le piattaforme social stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante per diffondere false informazioni. Durante il conflitto in Ucraina, il Cremlino ha da subito fatto leva sui social media per utilizzarli come strumento di propaganda. Ma le sanzioni occidentali hanno posto un primo freno alle notizie false, limitando l’utilizzo in Russia delle principali piattaforme americane, come Google e Meta, e riuscendo, così, a ridurre la capacità del Cremlino di raggiungere un vasto pubblico.

A questa decisione il Goveno russo ha risposto oscurando del tutto i social network americani e, in un primo momento, ha veicolato la propria comunicazione solo attraverso canali più tradizionali, come televisioni e giornali. Negli ultimi sei mesi, però, c’è stato un cambiamento nelle tattiche di disinformazione russe. Senza i megafoni di Facebook, YouTube e Twitter, Mosca ha cambiato marcia per concentrarsi su Telegram come canale principale per individuare un pubblico di nicchia suscettibile ai suoi messaggi nazionalistici.

Così Telegram è diventato, in qualche modo, un vero e proprio campo di battaglia. La piattaforma, che in un primo momento le autorità russe avevano cercato di vietare, alla fine è stata sfruttata a proprio favore del Cremlino. L’incapacità di Telegram di condurre quasi tutte le moderazioni dei contenuti, infatti, combinata con la facilità con cui gli utenti possono condividere video sulla piattaforma, lo ha reso un canale efficace per diffondere i messaggi propagandistici.

Lo stesso vale per un altro social media molto in voga. In un solo mese, TikTok è passato dall’essere considerato una seria minaccia al sostegno nazionale verso la guerra a diventare un altro possibile canale per la propaganda di Stato. Per rispettare la nuova legge sulle notizie false voluta da Putin e rimanere attivo nel Paese, la società cinese ha pensato di vietare tutti i contenuti stranieri in Russia, lasciando perciò campo libero alla propaganda di Mosca. Ciò ha portato alla creazione di una “bolla social” all’interno della quale i contenuti a favore della guerra sono tornati a crescere, diventando spesso virali.