Andò in scena per la prima volta il 23 gennaio 1877, nella San Pietroburgo zarista dove il Teatro Imperiale Mariinskij era il punto di riferimento per l’aristocrazia che ricercava l’evasione attraverso l’esotismo delle grandi esplorazioni. Ed è tornata, dal 26 maggio scorso, alla Scala di Milano, in uno dei tanti adattamenti attraverso cui la genialità di compositori e coreografi lo hanno costretto a passare. La versione è quella del più celebre danzatore russo, Rudolf Nureyev, che nel 1991 diede il proprio tocco al lavoro di Yuri Grigorivich cambiando soltanto la leggendaria scena del Regno delle ombre. Prima di lui, le trame del grande affresco indiano erano passate per le mani dei coreografi Aleksandr Gorskij, Vasilij Tichomirov e Agrippina Vaganova, innovatori degli schemi e, talvolta, del libretto di Marius Petipa. Frutto della genialità del compositore viennese Ludwig Minkus erano invece le musiche, oggi eseguite per l’occasione dall’orchestra sinfonica del Piermarini diretta dal maestro statunitense Kevin Rhodes.

Vittoria Valerio Marco Agostino ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala (4)

Credit: Teatro alla Scala

Il balletto, in passato molto discusso per le ambientazioni e i personaggi lontani dalla tradizione occidentale, è orientaleggiante e movimentato. Le coreografie del primo atto, soprattutto quelle dei ballerini maschi, non seguono i canoni della classica, perché ricordano lo stile moderno dai gesti ampi ed espressivi, anche se si tratta di passi studiati al dettaglio. Il tempio di una non meglio definita città dell’India, in un’epoca non meglio caratterizzata, fa da sfondo alla travagliatissima storia d’amore fra la danzatrice del tempio, la baiadera Nikiya e il generale capo delle guardie del rajah Solor, quanto mai fedele al canone della tragedia russa. Così, a partire l’ouverture dal tono fiabesco in cui marciano le legioni di soldati armati di lance, su un fondale dai rovi disegnati, prende avvio il balletto. I costumi delle guardie sono regali, possenti e pesanti, mentre quelli delle ballerine, colorati di un verde petrolio, sono leggeri e graziosi. Nikiya, giovane umile e incarnazione della purezza, fa il suo ingresso in scena velata; addosso, ha un bellissimo vestito dorato e blu, dalle spalle scoperte. La complicità tra Vittoria Valerio, ballerina scaligera, e l’omologo Marco Agostino, nei panni dei protagonisti, ravviva un primo atto dalla narrazione più lenta, scandita dalle intime coreografie a due.

A fare da contraltare a Nikiya è Gamzatti,  l’astuta figlia del Rajah che, in quanto tale, sa quello che vuole e lo si capisce dal momento in cui entra in scena, in una ricca carrozza, vestita con un tutù viola. Gamzatti è un’oratrice e lo dimostra coi passi slanciati e persuasivi che contraddistinguono il suo personaggio. Col suo estro, la donna riesce a ottenere la mano di Solor e proprio a questo punto inizia a consumarsi il dramma: Bramino, sacerdote innamorato anch’egli di Nikiya, rivela al sovrano la tresca e tra le due donne si scatena un’autentica faida. Siamo all’inizio del secondo atto. Nikiya finisce col minacciare Gamzatti con un coltello; resasi conto del suo gesto, scappa, allibita da quel mortifero lampo istintivo.

Alice Mariani nei panni di Gamzatti.

Alice Mariani nei panni di Gamzatti. Credit: Teatro alla Scala

Il secondo atto è comunque il più iconico, di autentico sfoggio della bravura dei ballerini. Nel susseguirsi delle coreografie molto applaudite, dai costumi ricercati e colorati, si contraddistinguono le due famosissime variazioni, la prima di Solor, la seconda di Gamzatti, davvero complicate dal punto di vista tecnico e vivaci da quello musicale. È il frangente che porta alla morte di Nikiya, uccisa dopo una danza lamentosa dal morso di un serpente nascosto nel cesto della frutta regalatole da Gamzatti come pegno di amicizia. È l’opposto dell’apparenza: è il dramma dell’abbandono. Qui, il pathos trascina la narrazione al terzo atto, detto l’“Atto Bianco”, delle ombre, opposto al ritmo martellante dei primi due. Il fulcro è rappresentato da decine di ballerine in tutù bianco che, da un’altura che si dirama verso il basso a zigzag, percorrono in arabesque la discesa. È una delle scene più famose della storia della danza classica: emblema di ordine, simmetria e ripetitività. Regna una musica sommessa, a mimesi del raccoglimento di un dopo vita malinconico e placido. Ci troviamo nell’Ade, dove Solor ritrova Nikija dopo aver fumato un veleno soporifero. I due si giurano eterna fedeltà. Come per un presagio, la loro riunione finale non deve attendere: nel tragico epilogo, il tempio cade rovinosamente sul matrimonio tra Solor e Gamzatti. La morte arriva anche per loro.