Le Isole Salomone e il Pacifico sono tornati al centro dell’attenzione della comunità internazionale e degli Stati Uniti, già occupati con la crisi in Ucraina e i sempre più difficili e conflittuali rapporti con la Russia. Il 19 aprile, la Cina ha confermato di aver sottoscritto un accordo di difesa e cooperazione con il Paese insulare, una situazione inedita che pone in difficoltà gli Usa e i loro alleati nella regione, in particolare l’Australia.

Proprio Canberra, infatti, è da tempo coinvolta nelle dinamiche interne dell’arcipelago: dal 2003 al 2017, il Paese ha condotto una missione di peacekeeping, la Regional Assistance Mission to Solomon Islands (Ramsi) in risposta alle tensioni e agli scontri etnici tra le due isole di Guadalcanal e Malaita. I due Stati, inoltre, hanno sottoscritto un accordo che prevede l’invio, da parte dell’Australia, di una forza di sicurezza, nel caso in cui si verifichino nuovi disordini.

La Cina è riuscita a scuotere il predominio di Canberra sull’arcipelago già nel 2019: il neo-eletto primo ministro, Manasseh Sogavare, ha deciso di tagliare i rapporti diplomatici con Taiwan, in cambio di 500 milioni di dollari in finanziamenti. La decisione è stata accolta negativamente dalla popolazione che, nelle rivolte del 2021, ha preso di mira la Chinatown della capitale, Honiara. Le proteste, però, non hanno scoraggiato Sogavare. Il nuovo accordo, infatti, prevede la possibilità per il governo cinese di inviare forze di sicurezza nelle isole Salomone, in caso di necessità e previa richiesta del governo di Honiara. Il dragone, quindi, sembra in grado di scalzare Canberra e, di conseguenza, gli Stati Uniti.

La convergenza tra interessi strategici cinesi e priorità nazionali degli Stati insulari del Pacifico rischia di limitare progressivamente l’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione.

«Pechino è percepita come un partner più attraente», spiega Alice dell’Era, ricercatrice alla Florida International University «Perché le priorità delle isole del Pacifico rimangono lo sviluppo economico domestico e i pericoli posti dai cambiamenti climatici, piuttosto che le dinamiche competitive regionali». L’accordo, dunque, sarebbe motivato dai finanziamenti e dall’assistenza economica cinese, elementi che si intrecciano con lo scarso interesse che Washington ha dimostrato per le problematiche di sicurezza non tradizionali che gli Stati insulari devono affrontare. Un atteggiamento, questo, che ha spinto diversi paesi del Pacifico tra le braccia di Pechino: «La Cina ha avviato diversi investimenti in Papua Nuova Guinea, Vanuatu, Tonga, Samoa e Kiribati. Nel 2016, ha siglato Memorandum of Understanding per la collaborazione in campo di sicurezza con le isole Fiji».

L’aspetto economico, ovviamente, non è l’unico motore delle azioni di Pechino nel Pacifico. «Vi è tutta una componente legata all’influenza regionale cinese e a tutti i modi in cui il Paese definisce la sua posizione» afferma Giulia Sciorati, ricercatrice all’Asia Centre dell’Ispi «Il fatto che tutti questi Stati siano piccoli e lontani dalla comunità internazionale dà alla Cina un vantaggio nell’estensione della sua influenza geografica». È improbabile, però, secondo la dottoressa, che questa proiezione di Pechino nell’Oceano conduca ad un suo sensibile rafforzamento militare: «La possibilità più concreta è che la Cina finanzi la costruzione di avamposti, amministrati in concerto con il Paese ospitante». Uno sviluppo che allontanerebbe ulteriormente la possibilità, già remota, di un intervento militare americano nella regione. Come ricorda Alice dell’Era, «le isole Solomon, come qualsiasi altro Stato sovrano, possono allacciare accordi di sicurezza a propria discrezione. Inoltre, un intervento militare da parte degli Stati Uniti e alleati, dettato da speculazioni su un eventuale costruzione di una base militare cinese, non sarebbe a mio avviso giustificabile dal punto di vista del diritto internazionale».

Washington ha ancora la possibilità di limitare l’espansione cinese nel Pacifico, ma deve cambiare radicalmente il loro approccio. «Se gli Stati Uniti vogliono mantenere la propria influenza in questo teatro, non è sufficiente esercitare una pressione a posteriori», conclude dell’Era «Al contrario, è necessario sviluppare una strategia, fondata su un ingaggio economico, politico e diplomatico, che vada a rimediare alle disattenzioni per le preoccupazioni delle isole del Pacifico e miri a rispondere alle loro necessità e priorità».