Oggi è la Giornata Internazionale dei Migranti, istituita per sensibilizzare e incentivare la tutela dei diritti di tutte le persone che migrano, quindi anche di tutte quelle persone che si sono trasferite – tendenzialmente volontariamente – in un altro Stato per lavorare o studiare tramite procedure burocratico-legali. Tuttavia, questa giornata ha una valenza soprattutto per la protezione dei rifugiati, forzati a lasciare il proprio Paese per cercare un luogo sicuro soprattutto per motivazioni economico-umanitarie. Per comprendere meglio il quadro, va segnalata anche un’altra condizione specifica: quella dei richiedenti asilo. Infatti, in Italia l’asilo è concesso a chiunque scappi da un Paese in cui non sono garantite le libertà stabilite dalla nostra Costituzione, mentre lo status di rifugiato necessita solo del requisito della persecuzione indipendentemente dal Paese di origine.

Per capire quanto sia necessario sensibilizzare su questo tema a livello globale, i dati dell’UNHCR raccontano la portata di questo fenomeno: in tutto il mondo ci sarebbero almeno 89,3 milioni di rifugiati.

Credits: Ahmed Akacha

Credits: Ahmed Akacha

Vedendo il caso italiano, le prime mosse fatte dai nostri governi per far fronte alle prime crisi umanitarie risalgono agli anni ’90, quando la crisi albanese, la guerra civile in Somalia e l’esodo dall’ex-Jugoslavia causarono l’arrivo nel Bel Paese di circa 150mila rifugiati (dati Camera dei Deputati). Il primo provvedimento fu il cosiddetto “decreto Puglia” del 1995 che istituì dei centri per la prima assistenza. Tre anni dopo seguì la legge Turco-Napolitano, che da un lato inasprì le pene per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma, dall’altro lato, prevedeva sia la concessione del permesso di soggiorno in caso di permanenza regolare in Italia per almeno cinque anni, sia l’istituzione dei Centri di permanenza temporanea, che servivano ad ospitare per un massimo di trenta giorni tutti quei migranti che dovevano essere espulsi o allontanati dal Paese.

Nel 2002 fu approvata la legge Bossi-Fini, che tutt’ora è la base dell’odierna gestione dell’immigrazione irregolare. Con essa furono introdotti i rilievi fotodattiloscopici di chi richiedeva il permesso di soggiorno, il periodo di permanenza massima nei CPT viene aumentato a sessanta giorni, la possibilità di trattenere i richiedenti asilo in Centri di identificazione (Cid) e, soprattutto, la creazione del Servizio di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), cioè centri gestiti da enti locali finanziati dal Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo con l’obiettivo di fornire assistenza organica ai migranti accolti. Con un decreto legislativo, nel 2008 i CID vengono sostituiti dai Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), che diventano il fulcro del sistema italiano di accoglienza. Invece, nel 2017 con il decreto Minniti si mirò soprattutto a velocizzare l’analisi delle richieste di asilo da parte dei migranti e furono istituiti i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).

Il regolamento di Dublino III è ritenuto insufficiente per una gestione comunitaria dei migrantiNaturalmente, la legislazione italiana va inserita in un quadro normativo comunitario: il regolamento di Dublino III. Approvato nel 2013, va a integrare le due versioni precedenti (1990 e 2003) stabilendo le modalità di elaborazione delle domande d’asilo, le quali essenzialmente prevedono che siano i Paesi che forniscono la prima accoglienza del migrante ad occuparsi di questa procedura, ma stimolando un sistema di solidarietà europea nella gestione comune del fenomeno. Questo regolamento è definito da molti come inadatto alla vera realizzazione di un piano comunitario per l’accoglienza in quanto le responsabilità dei Paesi membri non sarebbero bilanciate; tuttavia, non è ancora stato trovato un nuovo accordo per superare questo sistema.

Credits: Ahmed Akacha

Credits: Ahmed Akacha

Arrivando al giorno d’oggi, quindi in seguito al decreto Salvini (2018) e a quello Lamorgese (2020, che di fatto annullò quello del leader leghista), si può provare a fare una fotografia del sistema di accoglienza in Italia. In primis, troviamo gli hotspot che hanno l’obiettivo di identificare e foto-segnalare i migranti che arrivano in Italia, garantire loro cure mediche e, in caso, avviare la richiesta d’asilo. Chi ha il diritto all’accoglienza viene spedito in uno dei nove centri di prima accoglienza sparsi tra Calabria, Friuli Venezia-Giulia, Puglia, Sicilia e Veneto. Invece, chi deve essere espulso viene spostato nei Cpr in attesa del rimpatrio.

Dopo questa prima fase, interviene la cosiddetta “seconda accoglienza” del Sistema di Accoglienza e Integrazione (Sai), cioè l’ex Sprar, e dei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas), che sono gestiti dalle Prefetture e sopperiscono alla mancanza di posti nei centri Sai. Si tratta di un sistema si occupa sia dei richiedenti asilo che dei titolari dello status di rifugiato e che, al giorno d’oggi, conta poco più di 105mila migranti in accoglienza (dati Ministero dell’Interno aggiornati al 15 dicembre).

Al Sai accedono enti locali che, dopo aver vinto un bando, possono sviluppare il loro progetto ricevendo fondi ministeriali. Si tratta di piani di accoglienza integrata, cioè che mirano all’inserimento dei migranti nelle comunità locali, nel mondo della scuola e in quello del lavoro. Tra questi progetti c’è quello di Asp Ambito9, una realtà che coinvolge ben 27 comuni nella provincia di Ancona e che Barbara Paolinelli, responsabile dell’Unità Operativa Immigrazione, ci ha raccontato: “Come progetto siamo i secondi in Italia per numero di persone accolte e primi per numero di comuni coinvolti”.

Oltre 110 appartamenti per 754 posti autorizzati per l’accoglienza dei cosiddetti “ordinari”, cioè uomini soli, donne sole e con minori, e famiglie; accanto a questo, c’è anche un altro progetto Sai dove hanno collocato 42 minori non accompagnati in comunità educative. “Gli appartamenti possono essere sia in una cittadina montana di 900 abitanti, che a Jesi che ne ha 40mila. Le opportunità in questi posti sono diverse, quindi abbiamo costruito un sistema per uniformare le opportunità del migrante fornendo a tutti gli stessi servizi”.

L’inserimento dei migranti nelle comunità funziona molto bene: tra il 2020 e il 2021, sono stati stipulati 340 contratti di lavoroGli operatori, che sono assistenti sociali e amministrativi, si occupano di attuare un piano con cadenze fisse: la prima settimana fanno firmare il contratto per l’abitazione e spiegano alle persone accolte il territorio in cui si trovano. Entro i primi dieci giorni vengono inseriti nei corsi di italiano mentre i bambini vengono iscritti nelle scuole, mentre alla fine del primo mese deve essere pronto il curriculum vitae e un bilancio delle competenze per capire al meglio in che contesto lavorativo possono essere inseriti. E come spiega la dottoressa Paolinelli, questo progetto ha degli effettivi riscontri nell’integrazione: “Abbiamo ottimi risultati in termini di assunzioni sul territorio, in particolare dopo periodi di formazione e tirocinio dentro le aziende”. Infatti, come evidenziato dal loro report sul biennio 2020-2021, sono stati stipulati 340 contratti di lavoro, “che è un numero – spiega Paolinelli – molto buono considerando quanto sono stati difficili quei due anni a causa della pandemia” .

Dunque, il modello di Asp Ambito9 sembra essere più che vincente, frutto anche di un’ottima collaborazione con le amministrazioni comunali: “Lavoriamo con sindaci di ogni schieramento. Vogliamo far capire che l’accoglienza non è una cosa politica, ma che è un fenomeno che c’è e che quindi va gestito”. E ai sindaci ed assessori che collaborano al progetto, a Natale arrivano i prodotti “asylum” come panettoni e vino, ovvero il frutto del lavoro dei migranti nel loro percorso di integrazione.

Nonostante il sistema di accoglienza in Italia abbia subito frequenti cambiamenti, l’elemento sempre più evidente è uno: che l’intera macchina si basa sui progetti Sai che partono dai territori, dal basso, e dalle persone che credono nell’integrazione.