Dinamismo e capacità di trasformazione, voglia di reinventarsi e il celebre «cor in man». Sono queste le caratteristiche che lo scrittore Gianni Biondillo ama di Milano, la città che l’ha visto nascere e crescere e anche la principale ambientazione di molti suoi romanzi. È tra Quarto Oggiaro e via Padova che infatti si snodano le avventure dell’ispettore Ferraro, protagonista dell’amata serie poliziesca arrivata a 7 romanzi, e ironico e profondo alter ego dello scrittore. 

Nei suoi libri Milano non è solamente sfondo, ma diventa quasi protagonista del racconto. Perché questa scelta?

È stata una scelta inevitabile che ha che fare con la mia formazione. Sono laureato in architettura e insegno all’Accademia di architettura di Mendrisio. Ma non solo. Attraverso spesso la città a piedi sia perché non ho la patente, sia come scelta ideologica, scelgo di leggere la città come un grande libro di pietra. Milano è la città dove sono nato e cresciuto, ho un affetto particolare per i suoi aspetti meno conosciuti. Il Duomo ad esempio non compare mai nei miei libri, ho scelto di parlare di quella città che i milanesi stessi non conoscono.

Quali sono i suoi quartieri di riferimento, nella vita e nella letteratura?

Il mio primo quartiere di riferimento è Quarto Oggiaro, dove sono nato e cresciuto, dove vive ancora mia mamma e dove sono ambientate buona parte della mie storie. È il luogo della mia infanzia e adolescenza, dove mi sono formato. La via Padova è invece il luogo dove sono andato a vivere. Voglio molto bene a questo quartiere: questa lunga strada multietnica è un crogiolo di storie, di sapori, di ristoranti, di vita, nonostante le sue profonde contraddizioni. Il suo principale talento, fin dagli inizi del ‘900 è stato quello di accogliere in maniera unica l’immigrazione, prima quella meridionale, poi quella straniera.

Oltre al quartiere, nel suo ultimo romanzo L’incanto delle Sirene, racconta anche un periodo molto caratteristico di Milano, la settimana della moda. Ci sono altri periodi che vorrebbe raccontare legati alla città?

La settimana della moda è un ambiente profondamente estraneo ai miei romanzi e soprattutto al protagonista dei miei romanzi (l’ispettore Ferraro ndr). Ed è proprio sulla contraddizione e i suoi pregiudizi nei confronti di questo ambiente che ho voluto giocare il romanzo. Anche nel mio primo libro ho tentato un esperimento simile. Era diviso in quattro parti, ognuna delle quali dedicata a una stagione a Milano: una visione a tutto tondo sulla città e sui suoi cambiamenti nel corso dell’anno. Un movimento nello spazio e nel tempo.

Nel corso della sua carriera è passato da raccontare Quarto Oggiaro a raccontare l’Africa. Come si fa questo salto?

La narrazione del territorio mi ha sempre interessato, è quello che faccio nei miei romanzi. L’Africa non esiste è invece una narrazione dei miei viaggi: non racconto una città o una parte di territorio, ma sono io davanti ai miei luoghi comuni che vengono falsati dalla realtà. Partiamo credendo di possedere un’idea ben definita di un luogo, ma in realtà questa idea non esiste, questa idea è soltanto un’affascinante bugia.

Nei suoi saggi dedicati alle metropoli, parla anche del dolore nel non ritrovare più i luoghi del passato. Lei che ha vissuto la Milano di ieri e di oggi, cosa ha perso e cosa ha trovato la città nel corso degli anni?

Milano è una città che ha nel suo dna l’idea stessa del cambiamento, la sua più antica tradizione è quella di rifarsi il trucco. Prima si distrugge e poi si ricostruisce, è sempre stato così. È di 100 anni fa mito della Milano che guarda verso il futuro e demolisce le sue parti più antiche. Basta pensare ai Navigli: prima li interra e poi vive di nostalgia e li riporta alla luce. Gli ultimi 30 anni della città vanno scissi in due periodi distinti. Dalla «grande sbronza» della Milano da bere e dalla città bevuta da Tangentopoli negli anni ’90 fino agli inizi del 21esimo secolo la città è andata incontro a una profonda stagnazione, che ha reso Milano una città immobile e spaventata. Gli ultimi 10 anni invece rappresentano un periodo di grande movimento e innovazione. La Milano che racconto nel mio primo romanzo del 2004 è già storia. La città si è rimessa in moto, anche se non so dove stia andando. In merito ai cambiamenti, prima c’era una maggiore coscienza di classe, aiutata anche della grande importanza della fabbrica a livello sociale, mentre oggi domina l’individualismo, tutti odiano tutti. Il luogo comune della Milano col cuore in mano, la città dell’accoglienza, che guarda agli umili, oggi faccio fatica a riconoscerlo. Quello che invece mi piace degli ultimi 10 anni è il dinamismo, il desiderio di trasformazione, in cui riconosco la mia città.

Ha parlato più di una volta nei suoi libri di Expo e ha anche partecipato a delle iniziative legate all’evento. A un mese dalla fine, può fare un primo bilancio?

Tutti i gufi che dicevano che Expo sarebbe stata un deserto in estate sono stati smentiti. Ho scritto in tempi non sospetti che i principali visitatori sarebbero stati i lombardi e così è stato. È un modo in cui Milano si autorappresenta, rivolgendosi alla grande metropoli che è diventata, che si espande da Novara a Brescia, formando una città sola. È questa la gente che prende il treno al mattino va a Expo e torna a casa alla sera. Expo è la metropoli che si fa vetrina per i suoi abitanti. I numeri che ci aspettavamo dall’estero sono arrivati dai lombardi. Forse Milano ad oggi è l’unica città italiana in grado di reggere un colpo come quello di un’esposizione universale. Anche perché sconteremo per tutta una generazione le conseguenze della scelta di gestione delle aree di costruzione e il post Expo. È la prima volta che non viene costruita su un terreno pubblico ma il pubblico ha comprato il terreno da privati. Avremo un debito da saldare che ci peserà per anni sulle spalle, un fardello, una palla al piede che mi spaventa. O si avrà un’idea geniale e creativa per quella zona o si finirà nella solita speculazione edilizia.