Quando ci si ritrova ad accordare strumenti musicali complessi come il violino, è richiesta una dose di delicatezza superiore. Basta mezzo giro di troppo, per distruggere completamente lo strumento.Il violino che regola i rapporti tra Cina e Stati Uniti è ben accordato ormai da tempo ma, nella settimana che ha preceduto l’attesissimo G7 di Hiroshima, la notizia della condanna all’ergastolo di John Shing-Wan Leung ha complicato ulteriormente i rapporti tra Stati Uniti e Cina.L’accusa rivolta al settantottenne con passaporto americano, ma residente ad Hong Kong, è quella di spionaggio. Almeno, questo è quanto si è appreso da una nota della Corte intermedia del popolo di Suzhou, città nella provincia orientale del Jianjsu.Non si conoscono altri dettagli sulla sentenza, ma del resto non è una novità: in Cina questi tipi di processi avvengono infatti a porte chiuse, per via della natura spesso fumosa e contraddittoria delle accuse.Leung aspettava una sentenza dall’aprile del 2021.

«Questa situazione si inquadra all’interno si una sfida che va al di là del semplice scontro commerciale», commenta Simone Pieranni, giornalista esperto della superpotenza asiatica e fondatore dell’agenzia editoriale China Files. «Spesso la Cina arresta persone legate a Paesi con cui ha una diatriba. Di certo non favorisce la ripresa del dialogo che però, da quello che so, sta comunque procedendo sottotraccia. Lo stesso presidente Joe Biden, dopotutto, ha detto che le relazioni con Pechino sono avviate verso il disgelo». Normalmente, come sottolinea anche il giornalista, queste situazioni si risolvono abbastanza rapidamente.Il fatto che si sia già stabilita la condanna di John Shing-Wan Leung potrebbe complicare il lavoro delle diplomazie che, però, «sono già all’opera, anche se non alla luce del sole, perché si possa risolvere».

Per quanto Biden sembri ottimista per quanto riguarda i rapporti con la Cina, il quadro che esce dal G7 di Hiroshima, conclusosi domenica 21 maggio, appare molto diverso.«È stato essenzialmente guidato da Stati Uniti e Giappone, due alleati forti la cui prospettiva è chiaramente il contenimento di Pechino», spiega Simone Pieranni. «La Cina non è stata mai esplicitamente nominata, ma è evidente il riferimento ad essa quando si parla di coercizione economica e atteggiamenti predatori di certi Paesi nei confronti di altri. Inoltre, i sette grandi hanno anche definitivamente rigettato la proposta di pace cinese per l’Ucraina, il Position paper che, in realtà, non è mai stato realmente un tentativo di porre termine al conflitto».Un altro dato importante emerso dagli incontri dei leader mondiali nella città giapponese è stata l’internazionalizzazione della questione di Taiwan a cui, come sottolinea il giornalista, «non è mai stato dedicato tanto spazio. È stato specificato che non è solo una questione asiatica, ma internazionale».

Dagli incontri del G7 emerge la volontà dei Paesi occidentali e dei loro alleati nell’Indo-Pacifico di creare un fronte di contenimento anti-cinese. I differenti approcci delle varie nazioni nei confronti di Pechino, però, potrebbero minare sin dal principio questo tentativo.

Un fronte anti-cinese, dunque, composto dagli Usa, i suoi alleati nel Pacifico e l’Unione Europea è quanto emerge alla fine del G7. Le debolezze interne di quest’alleanza informale, però, sono da subito evidenti. A partire dai Paesi dell’Ue che, come nota lo stesso Simone Pieranni, «sono d’accordo nel condannare genericamente la Cina, ma poi ognuno fa i suoi affari con Pechino». Anche gli Stati Uniti, in particolare per quanto riguarda la produzione e la vendita di chip e semiconduttori, sono legati indissolubilmente alla superpotenza asiatica. «Una misura simile al Chips act europeo, come ha affermato anche l’amministratore delegato di Nvidia, danneggerebbe irrimediabilmente il mercato americano», commenta il giornalista.«Primo, perché il mercato di Pechino non è sostituibile da alcun altro Paese e, secondariamente, perché i cinesi se li produrrebbero da soli».

Il violino dunque ha molte corde, compresa quella militare. La notizia dell’accordo siglato tra Stati Uniti e Papua Nuova Guinea, che prevede la creazione di basi americane nel Paese e l’avvio di esercitazioni congiunte, potrebbe tornare ad infiammare lo scacchiere dell’Indo-Pacifico e dareuna nuova propulsione all’ambizione cinese di controllo delle acque che considera di propria competenza.